mercoledì 31 maggio 2017

Santo Simeone italo greco di Siracusa eremita in Palestina e monaco poi a Betlemme.Fu anche successivamente eremita sul Sinai e poi definitivamente in Renania .Uno degli ultimi asceti di unità tra il Cristianesimo d’Occidente e l’Ortodossia(verso il 1035)-Santi di Sikelia primo millennio al 1 giugno



Icona di San Simeone nel duomo di Treviri



Santo Simeone italo greco di Siracusa eremita in Palestina e monaco poi a Betlemme.Fu anche successivamente eremita sul Sinasi e poi definitivamente in Renania .Uno degli ultimi asceti di unità tra il Cristianesimo d’Occidente e l’Ortodossia(verso il 1035)





San Simeone, di origini greche ma nativo di Siracusa, divise la sua vita fra la Terra Santa e l’Europa settentrionale. Eremita e monaco in Palestina e sul Monte Sinai, fu poi inviato con un confratello in Normandia per riscuotere un necessario tributo dal duca Roberto II. Appresa la morte di quest’ultimo, non restò a Simeone che porsi al servizio del vescovo di Treviri Poppone, su consiglio dei suoi amici Riccardo, abate di Verdun, ed Eberwino, abate di San Martino. Condusse infine vita eremitica presso Treviri, ove morì e si sviluppò una forte fama di santità nei suoi confronti.

Martirologio Romano: A Treviri in Lorena, oggi in Germania, san Simeone, che, nato a Siracusa da padre greco, dopo aver condotto vita eremitica presso Betlemme e sul monte Sinai e avere a lungo peregrinato, morì infine recluso nella torre della Porta Nigra in questa città.


Tratto da

http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=3419:01-06-memoria-di-san-simeone-di-siracusa-recluso-a-treviri&catid=182:giugno&lang=it

1° giugno • Memoria di san Simeone di Siracusa, recluso a Treviri*.

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria



San Simeone è nato alla fine del 10 ° secolo a Siracusa, in Sicilia, da padre greco e madre calabrese, durante il periodo della dominazione araba dell'isola. Il padre, che era stato un soldato dell'esercito bizantino, lo mandò a Costantinopoli quando aveva sette anni per perfezionarsi negli studi. Col passare degli anni, Simeone decise di condurre vita monacale, quindi partì in pellegrinaggio alla volta della Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. In seguito, per sette anni, fece da guida, conducendo i pellegrini per i luoghi santi, prima di stancarsi di questa vita e preferendo invece di vivere come un recluso.
Dopo aver sentito parlare di un santo recluso che viveva su una torre sulla riva del fiume Giordano, Simeone andò a lavorare come suo servo, vivendo nella stanza inferiore della torre, mentre apprendeva dal suo nuovo maestro a come mettere in pratica la vita di un recluso. Costretto a partire, realizzò dopo aver letto e riletto le Vite dei Padri, che per diventare un recluso avrebbe dovuto trascorrere del tempo in un monastero. Di conseguenza, entrò nel monastero della Madre di Dio a Betlemme e divenne monaco. Dopo due anni lì, si trasferì al famoso Monastero di Santa Caterina del Monte Sinai in Egitto. Mentre era membro di quella comunità, fu ordinato diacono.
Dopo aver servito i fratelli per alcuni anni lì, Simeone ottenne il permesso dell'egumeno di partire per vivere da eremita, stabilendosi da solo in una piccola grotta sulla riva del Mar Rosso. Un monaco del monastero gli portava del pane ogni domenica, ma dopo due anni, essendo disturbato dal passaggio dei marinai e vedendo quanto era invecchiato il monaco che gli portava il suo cibo, decise di tornare al monastero. Su ordine del suo egumeno restaurò un monastero (o chiesa ?) in rovina sulla cima del monte Sinai, ma al suo ritorno pensava ancora al desiderio di vivere come un eremita, così fuggì e trovò un posto nel deserto. L'egumeno presto lo scoprì e lo richiamò al monastero.
Nel 1026 l'egumeno inviò Simeone a Rouen, in Francia per affari del monastero con Riccardo II, duca di Normandia, che ogni anno faceva generose donazioni al monastero. Lui debitamente si imbarcò, ma durante il viaggio lungo il Nilo la barca fu attaccata dai pirati, che uccisero l'equipaggio. Simeone a malapena riuscì a mettersi in salvo, buttandosi in acqua. Quando raggiunse a nuoto la riva non aveva idea se la gente del villaggio raggiunto fosse cristiana o meno, perché non era in grado di comunicare con loro in una delle lingue da lui parlate (cioè copto, siriano, arabo, greco e latino; è per questo che è conosciuto come Pentaglossos in greco, che si traduce come " Cinque lingue").
Alla fine Simeone riuscì a prendere la via per Antiochia, dove entrò a far parte di un gruppo di circa 700 pellegrini di ritorno da Gerusalemme, tra i quali l'abate tedesco, Eberwinus, dell'Abbazia di Tholey. Simeone entrò nel gruppo, ma quando raggiunsero Belgrado i funzionari ungheresi impedirono loro di andare oltre, cosicché andarono in Francia via Roma.
Simeone finalmente raggiunse Rouen, solo per scoprire che il duca Riccardo il Pio era morto (altre fonti dicono che era ancora vivo). In cambio della generosa donazione, Simeone lasciò come reliquia di Santa Caterina, un dito; la santa che era praticamente sconosciuta in Occidente in quel momento e questa donazione contribuì a diffondere la sua fama in Francia. Questo dito fu collocato nell'Abbazia Benedettina della Santissima Trinità, che in seguito assunse il nome di Santa Caterina, il luogo oggi è noto come Collina di Santa Caterina. La reliquia era stata collocata in una piccola cappella del monastero. Il cronista, Ugo di Flavigny ( 1065 - 1144), racconta che i monaci custodivano questa cappella per proteggere le reliquie di Santa Caterina e l'olio santo che scorreva da esse. Una volta mentre Simeone era di guardia tre porzioni della reliquia miracolosamente si staccarono dal pezzo principale e furono raccolte da lui.
Compiuta la sua missione di seguito viaggiò per la Francia e la Germania, visitando l'Abate Eberwinus a Tholey e andando a Treviri. Nel frattempo Poppo, arcivescovo di Treviri, (1016 - 1047) stava progettando un pellegrinaggio a Gerusalemme, e, dopo aver incontrato Simeone, lo invitò ad accompagnarlo nel viaggio. Partirono e raggiunsero Gerusalemme. Simeone, tuttavia, scelse di non tornare al suo monastero nel Sinai, invece accompagnò Poppo tornando a Treviri, un viaggio che durò circa due anni 1028-30.
Dopo il loro ritorno, Simeone chiese a Poppo se potesse vivere come un recluso nella grande porta romana della città, la Porta Nigra. Poppo acconsentì e celebrò una cerimonia il 29 novembre 1030, il giorno della festa di Sant'Andrea, davanti a tutto il clero e il popolo, in cui Simeone fu racchiuso in una cella, in alto nella torre cancello.
Poco dopo essere stato chiuso, morto e sepolto al mondo per il suo amore di Dio, una grande inondazione devastò i dintorni della città e della regione. La gente ormai pensava che Simeone fosse un mago la cui diavoleria aveva provocato il diluvio, perciò presero a sassate la sua cella, rompendo la finestra. Lo stesso, Simeone continuò con le sue preghiere e i digiuni, una dieta scarsa di pane, acqua e fagioli, e pregando in posizione verticale con le braccia tese, per timore che sdraiato potesse addormentarsi, sbaragliando così gli attacchi demoniaci . E 'morto il 1 ° giugno 1035, e fu sepolto nella sua cella, proprio come aveva insistito.
Nel giro di un mese, i miracoli furono segnalati presso la sua tomba, e fu eretta una scala di modo che i pellegrini malati e bisognosi potessero salire fino al suo santuario.
Sotto la spinta di Poppo, l'Abate Eberwinus scrisse un resoconto della sua vita e dei primi miracoli avvenuti nello stesso anno della sua morte come ha dimostrato Maurice Coens. L' arcivescovo Poppo rapidamente inviò il resoconto a Papa Benedetto IX, che rispose con una bolla ufficiale di canonizzazione.
Poppo poi fondò un monastero presso il sito della vita e di sepoltura di Simeone. Quando Poppo morì nel 1047, fu sepolto lì.
Fu canonizzato il 5 gennaio 1047 da papa Clemente II. Molti altri miracoli sono stati registrati in seguito, e la fama di San Simeone si diffuse in lungo e in largo. E 'stato uno delle ultimi grandi figure che collegarono l'Occidente ortodosso e l'Oriente ortodosso. Egli è conosciuto come Simeone di Siracusa, Simeone di Treviri e Simeone il Cinque Lingue del Sinai.

Nel 1041, fu iniziata la costruzione di una chiesa in suo nome sul luogo della cella di Simeone ed un piccolo monastero fu fondato nelle vicinanze. Questo ha preservato l'antica porta romana di Treviri dalla distruzione nel Medioevo, quando i locali utilizzavano gli antichi edifici come cave. La Chiesa di San Simeone si conservò fino al 1803 anno in cui Napoleone ordinò che la chiesa venisse distrutta per ripristinare l'originaria sembianza della Porta Romana.
Per molto tempo, quelli che venivano considerati il sarcofago e le reliquie di San Simeone sono stati tenuti nella Chiesa di San Gervasio a Treviri. Nel 1971, nella parte occidentale della città, una nuova chiesa fu consacrata nel nome di San Simeone, in cui sia le reliquie del Santo e il suo sarcofago sono stati solennemente trasferiti. Separatamente, nel tesoro della Cattedrale di Treviri, di Simeone viene custodito il Lezionario greco e un berretto monastico a maglia di lana di pecora. Purtroppo, l'Euchologion appartenutogli, vergato in Palestina prima del 1030, da cui Ambrosius Pelargus tradusse in latino la Liturgia di Giovanni Crisostomo (1540, pubblicato a Worms nel 1541), è stato perso. Per secoli i pellegrini visitarono le reliquie di San Simeone. Allo stato attuale, questa tradizione si è persa, ma è in fase di ripristino da parte dei fedeli ortodossi che vivono in Germania.
Traduzione dell'articolo in lingua inglese apparso su johnsanidopoulos.com.








TRATTO da

http://www.santiebeati.it/dettaglio/92829


Una Vita di San Simeone, giunta sino a noi, fu scritta immediatamente dopo la sua morte dall’amico Eberwino, abate di Tholey e di San Martino a Treviri, su richiesta dell’arcivescovo di quest’ultima città, Poppone. Svariate notizie sono così state tramandate sulle avventurose vicende terrene di questo santo.
Nato a Siracusa da padre greco, all’età di soli sette anni fu condotto a Costantinopoli per ricevere un’adeguata educazione. Raggiunta l’età adulta decise di intraprendere la vita eremitica, stabilendosi così in Terra Santa, ove si era recato pellegrino. Dopo aver condotto per qualche tempo vita solitaria sulle rive del fiume Giordano, entrò poi in un monastero nei pressi del Monte Sinai. Con il permesso dell’abate trascorse anche due anni in una grotta vicina al Mar Rosso, nonché un periodo in un eremo sulla sommità del Sinai. Ritornato infine al monastero, fu incaricato con un altro monaco di una missione che avrebbe cambiato radicalmente il corso della loro vita: riscuotere un tributo presso il duca Riccardo II di Normandia, la cui somma era assai urgente ai fini della sopravvivenza della comunità.
L’imbarcazione su cui partirono i due monaci fu però catturata dai pirati che uccisero l’equipaggio ed i passeggeri. Simeone si salvò lanciandosi dalla nave e raggiungendo a nuoto la riva. Raggiunse a piedi Antiochia, ove incontrò San Riccardo, abate di Verdun, ed il suddetto Eberwino, che stavano facendo ritorno in Francia, dopo essere stati pellegrini in Palestina. Divenuti amici, decisero di proseguire insieme il viaggio, ma giunti a Belgrado le loro strade dovettero nuovamente separarsi: ai pellegrini francesi fu concesso di continuare, mentre Simeone ed il monaco Cosma, unitosi nel frattempo al gruppo, vennero arrestati. Una volta liberati dovettero affrontare un lungo e periglioso viaggio fra le montagne bosniache, contaminate di briganti, nonché un innumerevole quantità di difficoltà prima di riuscire a raggiungere a costa onde imbarcarsi per l’Italia.
Giunsero infine finalmente a Roma, ma subito ripartirono pel la Provenza, ove Cosma morì. Attraversata ancora tutta la Francia, Simeone giunse infine in Normandia. Qui apprese che il duca Riccardo II era ormai morto ed i suoi figli, Riccardo III e Roberto I, rifiutarono fermamente di pagare il tributo dovuto.
Invano Simeone aveva così percorso invano quasi tremila chilometri ed erano ormai trascorsi anni dalla sua partenza. Pensò allora di consultare i suoi amici Riccardo ed Eberwino. Fu presentato dunque all’arcivescovo Poppone di Treviri, che lo volle quale guida nel pellegrinaggio in Terra Santa che stava per intraprendere. Indeciso se fare o no ritorno al suo monastero, decise infine di far ritorno a Treviri con il vescovo.
Finalmente dopo anni di viaggi, riuscì a ritrovare quella solitudine che tanto amava e desiderava. Gli fu concesso di vivere quale eremita in una torre della città vicino alla Porta Nigra, e l’arcivescovo stesso presiedette la cerimonia della sua reclusione. Il resto della sua vita lo trascorse così in penitenza, preghiera e contemplazione. Non furono però anni senza prove, non mancarono le tentazioni e talvolta subì attacchi da parte delle popolazioni locali. Un giorno venne assalito da gente inferocita ed intenta a scagliare contro di lui pietre ed altri oggetti, accusandolo di praticare la magia nera. Con il passare del tempo iniziò però a diffondersi nei suoi confronti una sincera fama di santità. Quando Simeone morì, nel 1035, l’abate Eberwino gli chiuse gli occhi e vi fu una grande partecipazione popolare ai suoi funerali. Porta Nigra divenne da allora la porta di San Simeone. Poppone fu come detto prima autore della sua biografia e promosse la sua causa di canonizzazione. Tale provvedimento fu adottato dal papa Benedetto IX dopo soli sette anni dalla morte del santo, seconda canonizzazione papale nel corso della storia.


Tratto da

http://www.paginecattoliche.it/S-SIMEONE-DI-TREVIRI-1035/


Simeone, monaco di origine greca, laico, costituisce un esemplare di santità prima eremitica, poi itinerante e quindi reclusa, a Treviri, alla fine del secolo decimo e al principio dell\’undicesimo. Questi periodi tanto burrascosi della storia, passarono alla posterità con la qualifica di "secoli di ferro", eppure anche allora la grazia di Dio suscitò in seno alla società persone piene di zelo e famose per le eroiche virtù. Tra costoro brilla di particolare splendore Simeone. Egli nacque a Siracusa (Sicilia), non sappiamo in quale anno. Dopo aver fatto i suoi studi a Costantinopoli, sotto la dinastia degli imperatori Macedoni, pellegrinò alla terra Santa e visse da eremita prima a Betlemme e poi nel monastero che l\’imperatore Giustiniano (+565) aveva fatto erigere, ai piedi del Monte Sinai, in onore di S. Caterina di Alessandria, vergine e martire, e che è ancora celebre.
Riccardo II, detto il Buono (+1027), duca di Normandia, che aveva accresciuto notevolmente la potenza del suo stato con le vittorie sugli angli e gli scandinavi, tutti gli anni faceva delle generose elemosine a quel monastero. Una volta, i monaci che erano stati inviati in Francia dall\’abate per riscuoterle, erano morti in viaggio, e allora Simeone aveva ricevuto l\’ubbidienza di andarli a sostituire nell\’importante compito.
Egli s\’imbarcò sopra una nave veneziana, ma non aveva ancora lasciato il Nilo che i pirati la saccheggiarono dopo aver messo a morte i marinai e i passeggeri. Simeone sfuggì alla strage gettandosi in acqua. Dopo tre giorni di stenti riuscì a procurarsi qualche vestito e a mettersi in viaggio per Antiochia dove fu ben ricevuto dal patriarca e dal governatore bizantino. Colà egli incontrò un pellegrino francese, Riccardo, abate del monastero di St-Vanne, a Verdun (Meuse), in procinto di visitare i Luoghi Santi. Essi divennero grandi amici. Simeone poté quindi continuare con lui il suo viaggio verso la Normandia.
Prima di giungere a destinazione, era volontà di Dio che il santo itinerante soffrisse molte tribolazioni da parte dei pagani. A Belgrado, ai confini tra i bulgari e gli ungheresi, il governatore della città lo fece mettere in prigione non volendo che seguisse il pellegrino francese.
Quando fu rimesso in libertà, Simeone andò a Roma, di là poté recarsi in Francia, tra disagi di ogni sorta, in compagnia di un pio monaco, di nome Cosma, che aveva condotto con sé da Antiochia. In Aquitania furono ben ricevuti dal duca Guglielmo V il Grande (+1030). In quel tempo gli spiriti erano molto eccitati riguardo all\’apostolato esercitato dal primo vescovo di Limoges (Haute-Vienne), nel terzo secolo, S. Marziale. Sulla sua tomba, veneratissima nel medio evo, era sorto un grandioso monastero benedettino. S. Gregorio di Tours ne aveva fatto uno dei sette missionari inviati dagli Apostoli. I due pellegrini, richiesti del loro parere, testimoniarono che la Chiesa d\’Oriente metteva il santo vescovo nel numero dei settantadue discepoli del Signore. Simeone, ad Angoulème (Charente), perdette il suo compagno. Quando arrivò a Rouen, capitale della Normandia, Riccardo II era morto da pochi mesi. Per avere aiuti per il suo monastero si rivolse allora al successore di lui, Riccardo III, ma non ottenne nulla. Durante la sua permanenza nella capitale, Simeone conseguì d\’indurre il conte Giosselino e la sua consorte, a fare costruire sopra una collina vicina alla città, un monastero in onore della SS. Trinità, che in seguito si chiamò di Santa Caterina, a causa delle reliquie di lei che Simeone aveva portato con sé dal Sinai e donato alla chiesa. Non volendo ritornare a mani vuote al suo monastero, il santo prese la decisione di andare a trovare l\’abate Riccardo, che era già ritornato alla sua abbazia di Verdun. Si recò quindi a Treviri (Germania), presso Ebervino, abate di San Martino, sotto la cui direzione diede esempi di sottomissione e di grande spirito di mortificazione. L\’arcivescovo della diocesi, Poppone, rimase talmente edificato delle sue virtù che, avendo deciso di andare in pellegrinaggio alla Terra Santa, lo volle per compagno di viaggio.
Quando ritornò a Treviri, Simeone aveva preso la decisione di vivere da recluso per tutta la vita. Il vescovo, alla testa del clero e alla presenza del popolo, presiedette la cerimonia della sua reclusione, nella festa di S. Andrea del 1028, in una torre vicina alla porta della città, chiamata Nigra a causa del colore delle pietre, già parte integrante della cinta difensiva del presidio imperiale romano. Il santo fu murato in quella torre e in essa visse come in un tomba dedito soltanto alla penitenza, alla preghiera e alla contemplazione.
Sembrando, però, alla gente ignorante e superstiziosa, che il genere di vita abbracciato dal santo fosse superiore alle forze umane, invece di restarne edificata ne rimase soltanto meravigliata. Il popolino s\’immaginò che quel monaco, straniero, fosse un mago che si privava della compagnia degli uomini per mettersi più facilmente in commercio con i demoni. Egli fu considerato perciò il responsabile di tutte le calamità che si abbattevano sulla città. Un giorno un\’inondazione causò in Treviri delle grandi distruzioni. La bassa plebe credette subito che Simeone l\’avesse provocata con i suoi sortilegi. Si sollevò quindi contro di lui e lo avrebbero lapidato se fosse riuscita a sfondare la torre in cui era stato murato. Non potendo fare altro, sfogò il suo livore spaccandogli le finestre a colpi di pietra. Il Signore terminava di purificare così il suo servo buono e fedele.
Simeone morì santamente il 1-6-1035, sotto il pontificato di Benedetto IX. L\’abate Ebervino, che ne scrisse la vita per suggerimento di Poppone, lo assistette nell\’ultima malattia e gli raccomandò l\’anima. Appena la notizia della morte del recluso si diffuse per la città, le sciocche recriminazioni del popolo incostante tacquero per incanto, e furono sommerse da un coro di lodi sgorgate da mille cuori di ferventi devoti. Si verificarono allora, alla lettera, le parole evangeliche che dicono: "Chi si umilia sarà esaltato". Il clero di Treviri, i religiosi e i fedeli accorsero alla cella del recluso per onorarne le spoglie mortali. Tutta la città risuonò così del nome di colui che la calunnia e il sospetto avevano reso oggetto di esecrazione per tanti.
Poppone più volte mandò a Benedetto IX relazioni riguardanti la vita e i miracoli operati da Simeone. Il papa lo autorizzò nel 1041 a procedere alla "elevazione" del corpo del santo recluso. Tale azione equivaleva allora a una canonizzazione.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 6, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 13-16
http://www.edizionisegno.it/





Saint SIMEON de Trèves, Siculo-Grec de nation, natif de Syracuse et élevé à Constantinople, ermite en Palestine, moine à Béthléem, ermite au Sinaï puis à Trèves en Rhénanie; il fut l'une des dernières saintes figures faisant la liaison entre l'Occident et l'Orient orthodoxes (1035). 
http://www.santiebeati.it/dettaglio/92829

https://it.wikipedia.org/wiki/Simeone_di_Siracusa


giovedì 11 maggio 2017

12 maggio Sikelia San Filippo il Cacciaspiriti




San Filippo di Agira, tra i santi dell’Alto Medioevo dell’Italia meridionale è uno dei più popolari, è anche noto e venerato in terra macedone nel IX secolo, in Palestina nel XI e dagl’inizi del XIV secolo a Zebbug nell’isola di Malta. E’ detto di Agira e per distinguerlo dagli altri santi di nome Filippo e perché svolse la sua missione in questa cittadina del centro della Sicilia. Cittadino dell’impero bizantino, santo italogreco, a seconda del centro in cui è venerato  è inoltre indicato come San Filippo il Costantinopolitano, il Trace, il Grande (per distinguerlo da San Filippo diacono palermitano, detto San Filippo il Giovane ), il Siriaco, ‘u niuru (nero). Figlio di ricchi proprietari di armenti, venne in Sicilia per incarico di un papa romano durante la diaspora dall’Oriente verso l’Italia meridionale di monaci ed eremiti verificatisi tra VII e VIII sec. e ha avuto da Dio il dono del miracolo e la forza di vincere le forze del male simboleggiate dal demonio. La sua visione universale di cristianesimo, le sue caratteristiche di vita che ci sono state tramandate,  come ha affermato San Giovanni Paolo II, lo pongono nella «lunga ieratica teoria di uomini e donne, che» in terra di Sicilia «in mezzo a difficoltà e persecuzioni, hanno vissuto in semplicità ed integralità il Vangelo», che non fa distinzione alcuna tra gli uomini. Assieme a tantissimi altri santi della Magna Grecia, Filippo di Agira è, come il patriarca ecumenico Bartolomeo I lo ha definito, palese esempio di unità «avendo vissuto l’esperienza meravigliosa e indicibile che la Santa Chiesa di Cristo era universalmente una ed indivisa»




Tratto da
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=1795159347247567&set=a.1001927373237439.1073741829.100002605583903&type=3&theater

+ Άγιος Φίλιππος ο Αργύριος (ο πνευματοδιώκτης).
Για τον άγιο Φίλιππο λαμβάνουμε πληροφορίες από το βίο του, γραμμένο τον 8ο αιώνα από κάποιο μοναχό Ευσέβιο της Μονής της Αγύρας. Εκεί, μαθαίνουμε πως ο άγιος γεννήθηκε στη Θράκη κατά τον 5ο αιώνα (επί αυτοκράτορος Αρκαδίου) και πήγε στη Ρώμη, όπου χειροτονήθηκε πρεσβύτερος από τον πάπα, ο οποίος τον έστειλε στη Σικελία ως ιεραπόστολο. Εκεί, ο Άγιος Φίλιππος έδιωξε τους δαίμονες που κατοικούσαν στο νησί και ιδιαίτερα πάνω στην Αίτνα και έκανε πάρα πολλά θαύματα. Πάνω στον τάφο του κτίσθηκε ναός και μονή αφιερωμένη στη μνήμη του, η οποία υπήρχε ως το 1939. η μνήμη του τελείται στις 12 Μαΐου.

Tratto https://www.scribd.com/document/24982561/Piccolo-Santorale


Al tempo dell’imperatore Arcadio, nella provincia di Tracia c’era un uomo di nome Teodosio, siro di stirpe e di lingua, che avevapreso in moglie la nobildonna Augia. Avevano tre figli, i quali erano commercianti di bestiame. Il giorno dell’esaltazione della Crocequesti erano soliti andare a Costantinopoli, dove stavano i genitori, per celebrare insieme la festa. Ma un triste giorno, mentretraversavano il fiume Sàngari in piena, la corrente li portò via. La loro madre non trovò pace, né di giorno né di notte, finché leapparve il Creatore del mondo, nelle sembianze d’un vecchio che le diceva: “Togliti il lutto, alzati e impasta tre pani con fior difarina e offri a Dio i tuoi doni in letizia”. Augia si alzò e fece proprio così; e quando Teodosio si uni a lei, concepì e partorì unmaschio e lo chiamò Filippo. Quando il bambino giunse all’età di sette anni, la madre gli fece tagliare i capelli e lo consegnò allaChiesa, e quando Filippo giunse ai ventuno anni, ve lo lasciò come diacono. Egli progrediva nella pace interiore e nella conoscenza,istruendosi nella scienza ecclesiastica in lingua siriaca. Volendo conoscere la tradizione apostolica dei Romani, insieme al monacoEusebio, decise di recarsi nell’antica Roma. Un giorno il Papa invitò Filippo a celebrare, e poiché

questi si scusò dicendo di non saper
 
dire nemmeno una parola in lingua latina, il Papa disse: “Nel nome di Cristo nostro Dio, apri la bocca ed esprimiti con parole latine”.Filippo aprì la bocca e subito si trovò a dire in lingua latina:
Nella pace del Signore, preghiamo
, e ciò che segue. Trascorsi là tre mesie dodici giorni, Filippo era scoraggiato, perché in chiesa poteva esprimersi in latino, ma per ogni altro affare non poteva dir parola. IlPapa allora gli disse: “Diacono Filippo, parla anche tu come noi”. Subito usci un fuoco dalla lingua del Patriarca e toccò le suelabbra; e in modo manifesto a tutti egli leggeva usando parole latine. Lo prese allora e lo ordinò presbitero; e dandogli in mano unvolume scritto disse: “Ricevi questo decreto apostolico. Quando nel tuo viaggio di ritorno passerai in Sicilia, troverai in quei luoghiun posto, di nome Arghirion, dove avvenne una migrazione di spiriti provenienti da Gerusalemme che ora abitano in una cavità dellaroccia, di fronte al monte chiamato Etna, che emette un fiume di fuoco. Terrai dunque in mano il decreto, e non potrai tornare daituoi genitori finché tu non abbia distrutti tutti gli spiriti”. Filippo ricevette il decreto affidatogli e subito si imbarcò con il monacoEusebio; raggiunse per mare Reggio, si recò poi a Messina e, proseguendo a piedi, giunse al luogo assegnatogli. Si sedette in unagrotta ove c’erano tre colonne e tre gradini, tagliati da pietre perfette; là Filippo stava seduto e compì guarigioni per due giorni. Poisalì di fronte all’Etna: fece una benedizione con il volume che teneva in mano e apparve la turba dei demoni che, come pietre,rotolavano giù. Fuggendo, gridavano: “Guai a noi! Il presbitero Filippo ci caccia anche da qua!” Un giorno Filippo stava facendo unafervente preghiera per una fanciulla tormentata da uno spirito. Il beato Filippo le toccò la mano e disse: “Esci e vattene nel luogoche ti è stato preparato!” Lo spirito gridò: “Filippo, esco dalla fanciulla, ma non uscirò mai da questo luogo con i miei compagni,bensì vi abiterò con te, fino all’ultimo giorno!” Subito la fanciulla divenne sana. C’era molta folla di oppressi da spiriti immondi, innumero di circa quattrocento, i quali divennero sani. Come era costume fra quella gente prima dell’arrivo del santo, per timore deglispiriti gli uomini portavano loro doni; infatti i demoni, trasformatisi a somiglianza umana, come se un padre defunto chiedesse a unfiglio di offrirgli delle sostanze di sua proprietà, dicevano: “Figlioli, date anche a noi dei beni a vostra disposizione!” Questo uomoammirevole innalzava in diversi luoghi edifici sacri. Un giorno uscì per scendere dalle parti settentrionali di quel luogo a pregare, egli venne incontro un uomo con sua moglie, i quali piangevano di un pianto violento, e dissero: “Pietà di noi! Nostro figlio ha bevutoalla fonte Mamoniea ed è morto all’istante”. Egli andò di corsa alla sorgente, fece sul morto il segno di croce con il volumeapostolico e lo chiamò: “Giovanni, Giovanni, Giovanni, nel nome di Dio, sorgi!” E subito il giovane sorse come da un sonno; egli loconsegnò alla madre dicendo: “Da’ gloria al Signore Dio. E tu, spirito immondo, se vuoi rimaner qui, non recar più alcun danno; seinvece persisti, ti incolga il castigo di venir legato con cinghie di ferro dallo Spirito Santo e da Gabriele, comandante in capo dellePotenze divine; e così starai legato sino alla fine del mondo”.Filippo se ne stava seduto tenendo in mano il vangelo, quand’ecco venne un certo Atanasio, morso da una vipera: il suo corpo eraormai tutto piagato. Il servo di Dio sputò a terra, mischiò la polvere con la saliva, gli spalmò la ferita e subito divenne sano.Una donna aveva in ventre un feto morto da quattro giorni e, non potendo partorire, era ormai vicina alla morte. Passò Filippo, presedell’acqua con le due mani, la versò in una tazza e ordinò che la bevesse. E subito uscì i il feto imputridito.Un giorno, verso mezzodì venne un pecoraio; Filippo prese della polvere dalla terra, fece su di essa il segno della croce con il volumee gli disse: “Spargi questa sostanza nell’ovile e quando verranno le belve dici: Il presbitero Filippo, nel nome del Signore, vi comandadi stare lontane”. Il pastore fece come gli era stato comandato e le bestie pericolose furono scacciate piene di paura.Una donna che aveva un flusso ininterrotto di sangue, venne da lui che stava celebrando, e pregò il suddiacono perché le dessel’acqua in cui il santo aveva lavato le sue mani, e gli porse un asciugatoio di lino, perché egli asciugasse le sue mani. Il suddiaconoprese l’acqua e la diede alla donna. Questa, dopo aver bevuto, fu sanata. Poi portò a casa sua l’asciugatoio e, trovando una talegravemente malata, le mise addosso l’asciugatoio, dicendo:
“ 
Nel nome di Dio e del santo sacerdote Filippo, sorgi dal tuo letto e va’al suo sacro tempio”. E quella fu subito sanata.Un uomo aveva una figlia oppressa da elefantiasi. Venne ai piedi di Filippo, piangendo: “Santo padre, sia guarita la tua serva!” Egliordinò al diacono di portargli il velo che si pone sui Presantificati, e di avvolgervi completamente la fanciulla per circa un’ora. Pregòper lei e la fanciulla diventò rilucente di uno splendore più vivo dell’oro, e andò a casa sua glorificando Dio.Un giorno Filippo celebrava la festa dell’apostolo Pietro, quando venne un uomo di nome Leonzio, che aveva una ferita inputrefazione. Filippo si lavò le mani e disse al diacono: “Va’ alla porta centrale della chiesa, impasta con questa acqua la polvereche sta là, fa’ un unguento con tale fango e ponilo sulla ferita”. E quello guarì.Un tale portò un giumento che non poteva essere addomesticato. Il santo sorrise e fece un segno di croce sull’animale, dicendo:“Obbedisci al tuo padrone; non colpirlo più con morsi e calci”. E il giumento divenne più mansueto di una pecora.Vicino al tempio del santo c’era un’arca, e col permesso di Dio vi abitava uno spirito il quale, verso mezzogiorno, privava della vistagli uomini che vi passavano. Un tale, colpito da una grave malattia, venne a quest’arca per riposarsi e subito fu privato della vista.Lo portarono per mano alla porta del tempio, ed egli gridò: “Santo di Dio, ho fatto molti
stadi
per venire da te ed essere guarito, mafui privato della vista nell’arca che sta vicino al tuo venerabile tempio, mentre vi stavo seduto verso mezzogiorno”. Il santo, pieno disdegno, disse: “Dico a te, spirito immondo che privi della vista gli uomini: sarai cieco d’ora innanzi e sino alla fine del mondo,abiterai dentro all’arca ridotto in miopia e fuori di essa non potrai aggredire alcun uomo o bestia”. E quell’uomo fu liberato dallacecità, ricevendo allo stesso tempo anche la guarigione dalla malattia.Un uomo fu morso da un cane arrabbiato. Il beato Filippo ordinò che portassero erba, la bruciassero e, disciolta in acqua, laintroducessero nelle sue ferite. E quell’uomo guarì.L’arconte di Agrigento accusò dodici uomini di cospirazione. Essi però pagarono i soldati che li conducevano a Catania, perché lifacessero passare dal sacerdote Filippo. Giunti al suo tempio, levarono lamenti: “Pietà! Ingiusta è l’accusa scritta contro di noi!” Egli mostrarono l’atto d’accusa, sigillato con il piombo. Il santo di Dio disse: “Per la potenza di Dio, questa pergamena sia scritta cosìnel suo interno:
Questi uomini li si vuole condannare ingiustamente, perché il loro arconte è contro di loro
”. Giunsero quegli uominidal governatore e questi, letta la pergamena, disse: “Siano sciolti i prigionieri e tornino di corsa a casa loro”. I prigionieri se neandarono dando gloria al Signore Dio che li aveva liberati. Colui che li aveva mandati ingiustamente, quando li vide tornare, fu presodall’ira; e subito si impadronì di lui un demonio assai molesto. Gli dissero allora quegli uomini: “Va’ ai piedi del sacerdote Filippo, eanche tu sarai liberato dallo spirito”. Egli si recò di corsa al tempio gridando: “Pietà di me, servo di Dio Filippo!” Il santo disse allospirito: “Esci e allontanati da costui, per la potenza di Cristo”. E quegli fu subito risanato, e ricevette dal santo il comando di nonaccusare più falsamente nessuno per motivi d’interesse.L’igumena del Monastero dei Santi Sergio e Bacco era oppressa da uno spirito. Andò dal santo e, mentre quegli stava pregando, diedeun morso al lembo del suo mantello: in quel momento divenne sana.Tre uomini, provenienti dalla Lidia, vennero in Sicilia per comprare grano, ma Satana suggerì a uno di loro di rubare il denaro cheavevano in comune. Sconcertati per aver perso il denaro e sentendo parlare di Filippo, si recarono in fretta da lui e gli dissero:“Avevamo in comune una somma di denaro per degli affari, ma ci fu rubato”. Il santo disse: “Prendete una manata di fango”. Essipresero una manciata di fango, ed egli disse di nuovo: “Aprite le mani”. Quando due di essi stesero le mani, apparvero come lavatecon acqua limpida; a colui invece che aveva commesso il furto, il fango si era seccato e gli tratteneva le dita, sì da non lasciarglielestendere. Gridando disse: “Servo del Signore, sia sanata la mia mano!” E subito la mano fu sanata ed egli restituì il denaro.Un giorno Filippo andò a pregare con il monaco Eusebio nel tempio dell’apostolo Pietro. Verso mezzanotte si udì uno spirito chediceva: “Saltate giù! saltate giù! Scappate! il nostro persecutore è salito sul monte e un fuoco ci distrugge”. Allora Filippo disse:“Sono migrati qui spiriti immondi da una regione lontana. Stiamo immobili in preghiera, finché Dio li scacci di qua”. E mentre
stavano pregando usci dal tempio un fuoco, come un fiume in piena, che li scacciò via. Quando infatti a Catopidunte, di notte o amezzogiorno, si sentiva il grido per la caduta di un demonio, una pietra scendeva giù rotolando e uccideva o un uomo o un animale.Ma d’allora tutti poterono passare da lì restando illesi.Un uomo di Palermo era senza figli. Raggiunse Agira e si gettò ai piedi di Filippo dicendo: “Padre, tu sai perché sono venuto”. Ilsanto disse: “Certo, lo so; torna a casa tua”. Quell’uomo, tornato a casa, si uni alla moglie ed ella concepì, e generò un maschio chechiamò Filippo. Quando il bambino ebbe circa otto anni, lo condusse dal sacerdote Filippo; egli con gioia lo prese per mano e loportò nel tempio, lo benedisse e gli disse: “Torna nella tua terra e costruisci un tempio del Signore”. Il bambino Filippo prese dalpresbitero Filippo, come ricordo, una delle sue venerabili tuniche, un asciugatoio e la fascia con cui si cingeva i suoi santi fianchi;partito dunque di là, trovò per strada un uomo che era stato paralizzato dal veleno d’un serpente. Volendo il bambino completare imiracoli del santo, svolse la cintura che aveva preso dal santo, e ne cinse quell’uomo. E in quel momento quegli sorse sano comeprima. I palermitani, come seppero che le tuniche del santo erano state portate nella città di Palermo e che si ottenevano guarigioniper mezzo di esse, furono pieni di gioia inesprimibile. Subito un monaco, oppresso da uno spirito, mentre Filippo giungeva perattraversare la prima porta della città, gridò: “Il presbitero Filippo tu porti con te, o diacono Filippo! Io mi affretto ad andare da luiper essere liberato da uno spirito che si è impadronito di me”. Ma quando quegli arrivò, Filippo era già morto.Dopo aver infatti compiuto i divini misteri, il santo si coricò nella sua arca e disse: “Questo è il mio riposo per i secoli dei secoli”.Visse 63 anni.Subito il monaco Eusebio fuggì per timore del toparca Orbiano, riparò ad Alessandria, e affidò al patriarca Apollinare una relazionesulla vita del beato Filippo.Perché il servo di Dio risplendesse anche dopo morte, venne alla veneranda arca il monaco Evlavio di Palermo, tormentato da unospirito. Il santo stese la mano con il volume, e fece un segno di croce: e subito quello divenne sano. Al quattordicesimo giorno dallamorte venne un certo Eutropio, semiparalizzato. Si strofinò contro la bara e subito divenne sano: tutti quanti vengono alla sua santabara sono liberati da tentazioni, pericoli, spiriti, calunnie, guerre intestine, malattie, sterilità dei campi, ira di Dio e del Governo.Quaranta giorni prima della sua dormizione, Filippo era apparso anche al nobile Belisario che venne ad Agira, per mostrargli la piantaa forma di croce di una costruzione ecclesiastica. Lo stesso Belisario costruì due arche, una per il monaco Eusebio, e una per ilbeato Filippo; poi costruì anche il venerando tempio


Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/91317

La vita
Di lingua e cultura siriaca, nacque per un miracolo concesso ai suoi genitori che avevano perduto i tre figli nella piena del fiume Sagarino, mentre ritornavano a casa con il loro gregge. Offerto dal padre e dalla madre a Dio, Filippo all’età di ventuno anni venne a Roma, ottenendo lungo il viaggio da Dio la fine della tempesta che minacciava di fare affondare la nave. A Roma, dopo avere ricevuto miracolosamente la facoltà di parlare in latino, venne consacrato presbitero ed ebbe da un papa, del quale non si conosce il nome, la missione di evangelizzare la Sicilia centro orientale e liberare Agira dalla terribile infestazione dei diavoli, per mezzo di un oros apostolikòs affidatogli dallo stesso papa, probabilmente la cosidetta “preghiera di San Filippo” utilizzata da San Fantino in Macedonia per guarire un malato. Da Roma raggiunse Messina e quindi Agira. Qui trovò riparo in una grotta fuori dall’abitato ov’erano tre colonne e tre gradini, tagliati da pietre perfette; là stava seduto, secondo l’abitudine. Dopo due giorni salìto sulla sommità del monte liberò dai demoni, grazie alla sua preghiera, l’allora Argirium, dove visse la maggior parte della sua vita e morì probabilmente all’età di 63 anni. San Filippo è santo che compie miracoli in vita e in morte a testimonianza della grande predilezione di Dio. La sua figura ha come lineamenti distintivi storicamente netti e inequivocabili di presbitero taumaturgo e persecutore dei demoni. In vita la sua fama di persecutore dei demoni e di santo che compie miracoli gli procurò molto fama per tutta la Sicilia. L’agiografia del IX sec. ne descrive venti in vita e in morte tra i quali la guarigione di uno storpio, di una emorroissa, la resurrezione di un giovane presso la fontana Maimone di Agira, morto per un sortilegio del demonio, la liberazione di una giovane dalla possessione del demonio, e quella di dodici cittadini di Agrigenti da una condanna ingiusta. Uno dei più noti miracoli è la nascita del suo discepolo San Filippo diacono palermitano, venerato ad Agira come compatrono..

Le reliquie
Ad Agira fu sepolto, secondo la tradizione, nell’arca inferiore delle due costruite nella cripta/cateva, dove le sue ossa hanno riposato per secoli. Sulla tomba fu costruita una chiesa a forma di croce su precisa indicazione del Santo da un suo nobile devoto della regione di nome Belisario. L’ultima e più rinomata inventio delle sue reliquie è avvenuta unitamente a quelle di San Filippo Diacono, San Eusebio monaco e San Luca Casali. Per la contraddittorietà dei documenti, il ritrovamento non è databile con esattezza, ma deve collocarsi nell’ultimo quinquennio del 1500. Il riconoscimento canonico delle reliquie è avvenuto da parte di mons. Filippo Giordì nel 1604 durante la sua visita dell’allora abbazia di Santa Maria Latina di Gerusalemme o di San Filippo de Argyrione, su incarico regio, mentre la loro prima riposizione nell’attuale cassa di argento è del 17 luglio del 1617.

Persecutore dei demoni
La lotta, le sfide e lo scontro anche fisico con il demonio sono nota caratterizzante nella iconografia. La tradizione leggendaria narra tra l’altro che San Filippo, legato dal diavolo da pesantissime catene se ne sia immediatamente liberato, mentre satana legato con i  suoi capelli o alcuni fili della sua barba, sia ricorso all’aiuto dei fratelli demoni dell’inferno, dove San Filippo li ha cacciati, ritornando nero per la fuliggine. La tradizione ad Agira narra anche che dopo una lotta fisica in una grotta durata tutta una notte, il demonio sconfitto fuggi provocando un buco nella roccia che, pertanto, viene detta rutta pirciata (grotta bucata). Si narra altresì ad Agira che San Filippo vinse il diavolo nel lancio più lontano della roccia che ora si trova nella cappella detta Pietra di San Filippo. Lo storico Tommaso Fazello recatosi ad Agira nel 1541 testimonia di avere assistito nella sua chiesa, nella giornata del 12 maggio, alla liberazione contemporaneamente di ben duecento indemoniati per lo più di sesso femminile.

L’agiografia
San Filippo è conosciuto grazie ad un consistente gruppo di scritti, in prosa e poesia, agiografici e innografici in lingua greca e, in particolare, da due agiografie e un Canone. Altri dati che ci aiutano a conoscere san Filippo, il suo contesto storico, il suo ambiente di fede, vengono dalla vita di San Luca Casali di Nicosia e da un altro gruppo di testi agiografici su San Leone Luca da Corleone, San Cristoforo, la moglie Kalì ed i loro figli Saba e Macario anch’essi santi, Luca di Armento, Vitale da Castronovo, vissuti nel IX o nel X secolo, formatisi nel convento di Agira e da qui transitati in Calabria e Lucania dove diffusero il culto di san Filippo e fondarono monasteri con il suo nome. Le due Vite che non ci danno due ricostruzioni storiche della personalità/figura di San Filippo, rispettano, però, le coordinate agiografiche diffuse dal Delehaye e indicate dai Bollandisti, come necessarie e indispensabili per stabilire la storicità di un santo: il luogo di sepoltura, il giorno e il mese della morte di san Filippo. Le Vite sono state scritte in tempi assai distanti l’una dall’altra, contraddistinte dalla diversa consistenza, sono dal valore molto dissimile, sono portavoce di due differenti tradizioni. Il Bìos più antico e più ampio, scritto nel IX-X secolo (880-900), forse nello scriptorium del monastero di Agira, è attribuito a un monaco di nome Eusebio, che si dice compagno del santo e ritenuto santo egli stesso. Il Bìos più recente è stato scritto verosimilmente nel monastero di san Filippo il Grande di Messina nel XIII-XIVsec, tre/quattrocento anni dopo quello di Eusebio, è per tramite del Canone palesemente dipendente da quello e ne segue la trama narrativa, è assai più breve, è stato attribuito erroneamente all’arcivescovo di Alessandria Atanasio ((295-373), autorevole autore della vita di Sant’Antonio. Eusebio colloca San Filippo ai tempi dell’imperatore Arcadio che governò dal 395 al 408 d.C, il falso San Atanasio ai tempi dell’imperatore Nerone che regnò dal 54 al 68 d.C, e lo dice mandato dall’apostolo Pietro.

La vexata questio
Le due Vite, spesso analizzate con una metodologia non sempre adeguata e corretta, non ci fanno conoscere chi siano stati in realtà i loro autori. Le due diverse datazioni a partire del XVI secolo hanno generato due correnti di pensiero che sono state, per secoli aspramente contrapposte, ma che ora sono entrambe superate da una terza scientifica acquisizione che risulta più verosimile. L’attuale Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, mons. Cesare Pasini, autore della edizione critica di entrambi le Vite su San Filippo, ricostruite nel testo quanto più vicino possibilie ai testi originari, ha rivoluzionato le posizioni esistenti. Nelle sue diverse pubblicazioni, dopo aver seguito la storia dei codici riportanti la Vita in greco di San Filippo, fondandosi sul Bìos di Eusebio, ritenuto il solo attendibile per uno studio scientifico, con argomentazioni pertinenti e motivate nel 1981, ribatite nel convegno di Agira del 1999, ritenute valide dalla storiografia scientifica militante e del tutto condivisibili, Pasini ha dimostrato che san Filippo di Agira non sarebbe potuto vivere nè nel I secolo nè nel V, ma lungo il VII secolo, forse toccando il primo decennio dell’VIII secolo. Tale periodo fu contrassegnato da una forte migrazione di persone verso la Sicilia e l’Italia meridionale sospinte dalle impossibili condizioni di vita imposte dalle scelte politiche degli imperatori di Oriente.

Il culto
Il suo dies natalis per la vita a fianco di Dio è il 12 maggio, giorno della morte, in un anno storicamente non precisabile, divenuto nella più che millenaria mai interrotta tradizione, dies festus. Il modello di vita di San Filippo fu assunto come esempio e praticato dai monaci che, secondo la loro tradizione, costruirono un convento accanto alla chiesa che custodiva le sue reliquie. Il monastero, di cui San Filippo è solo eponimo, diventò ben presto il più famoso del suo tempo in Sicilia e centro di irradiazione nel X secolo della sua pratica di vita. La greca Agyrion, la romana Agirium, in onore di San Filippo dall’inizio del basso medioevo, per un millennio è stata chiamata San Filippo di Argirione o di Argirò e sanfulippani i suoi abitanti. Il suo culto è radicato fortemente lungo la costa ionica della Sicilia da Capo Passero a Capo Peloro, della Calabria da Laurito a Pellaro a Gerace, e della Basilicata. E’ caratterizzato da intensa e profonda fede con manifestazioni particolarissime: ad Agira (viaggi dei devoti scalzi con grossi ceri votivi nella Processione del Perdono) a Calatabiano (discesa e salita di corsa dal castello, ‘a calata e ‘a cchianata); a Limina (il santo corre per circa 6 km e fa i “giri”/balla). In Sicilia non esiste provincia che non abbia una chiesa dedicata a San Filippo di Agira. Gli altari o le cappelle a lui dedicati non si contano.

Uno stereotipo inesistente
La tradizione  che gli agirini da sempre preferiscono la datazione della venuta di San Filippo nel I secolo mandato da San Pietro papa è destituita da ogni fondamento ed è nata con la fine del XV e gli inizi del XVI secolo con la diffusione della Vita pseudoatanasiana, sino ad allora sconosciuta. A dimostrarlo sono i codici esistenti presso la cattedrale di Palermo in uso sino a tutto il 1400 e 1500 che riportano solamente la datazione eusebiana. La tradizione che fa risalire “l’antichità della propria Chiesa locale all’epoca apostolica o nei primi tre secoli permane ancora oggi in pubblicazioni, pur ricche di erudizione, ma preoccupate solo di difendere, contro l’evidenza scientifica, queste “venerande” e “pie” tradizioni”( Mons. Gaetano Zito). Allo stato attuale della ricerca storica, la tradizione che vuole San Filippo venuto ai tempi di san Pietro va annoverata, quindi, nel numero di quelle leggende locali finalizzate ad accrescere il prestigio del santo o della istituzione cui si riferiscono, non di certo alla ricostruzione storica, che non toglie nulla alla fede per il santo, ma anzi lo colloca in una visione più umana e realistica.

L’iconografia
L’iconografia ricorrente più antica lo rappresenta di pelle bianca, barbato, per lo più stante e benedicente in abiti sacerdotali nella foggia bizantina o romana o nell’atto di liberare un posseduto dal demonio, raffigurato come drago con ali di pistrello, a volte con volto umanoide. In qualche opera più recente, XVIII sec., il diavolo ha forme umane con coda e corna. A Laurito San Filippo viene presentato con mitria e pastorale, da leggersi più come insegne pontificali di un abate che non come quelle di un vescovo, per l’antica provenienza monastica del culto in quel luogo. Spesso il demonio è posto sotto i  piedi del Santo legato con grosse catene. In opere create dal XVI secolo, in particolare modo nell’aria territoriale alle pendici dell’Etna, simbolo emblematico dell’inferno nel Medioevo, è rappresentato con mani e faccia neri. San Filippo è invocato per la liberazione dei posseduti del demonio, per le guarigioni, nei terremoti, per la siccità ed in ogni difficoltà personale ritenuta insuperabile.
 

La vita di S.Filippo d'Agira

http://www.agira.org/Pubblicazioni/la-vita-di-san-filippo-dagira.html

Del beato Filippo il Cacciaspiriti Preghiera di benedizione per una casa



www.filippodagira.it è un portale di approfondimento sulla figura di San Filippo d’Agira.
Il progetto è realizzato da devoti e studiosi che hanno a cuore il culto e la valorizzazione del Santo, nonché la promozione dei territori dove quest’ultimo è venerato.




Saint PHILIPPE, originaire de Thrace, prêtre, apôtre et exorciste à Agira en Sicile (Vème siècle). 





http://www.santiebeati.it/dettaglio/91317

Del beato Filippo il Cacciaspiriti Preghiera di benedizione per una casa 

sta in

http://padridellachiesa.blogspot.it/2013/10/del-beato-filippo-il-cacciaspiriti.html

 

martedì 9 maggio 2017

Santi di Sikelia per il 10 Maggio primo millennio



Risultati immagini per ic cx ni k 

Santi Alfio,Filadelfo e Cirino fratelli di sangue e martiri a Lentini in Sicilia insieme con i Santi Onesimo ed Erasmo ed altri 14 compagni  al tempo di Decio  tra il 250 e il 251

Tratto da

http://www.santiebeati.it/dettaglio/90308

Le notizie che possediamo sulla vita e sul martirio dei tre fratelli, Alfio, Filadelfo e Cirino, il cui culto è molto diffuso in quasi tutta la Sicilia Orientale fin dall'alto medioevo, sono tutte contenute in un documento, che gli studiosi delle vite dei Santi fanno risalire al secondo decennio della seconda metà del secolo X, al 960 circa: si tratta di una lunga e minuziosa narrazione scritta da un monaco, certamente basiliano, di nome proprio Basilio, e con verosimiglianza a Lentini in provincia di Siracusa, come si evince dalla precisa indicazione dei luoghi, delle tradizioni e dei costumi della comunità là esistente. Il manoscritto, che si compone di più parti, alla fine della terza parte si chiude con questo periodo, ovviamente in greco: "Con l'aiuto di Dio venne a fine il libro dei SS. Alfio, Filadelfo e Cirino, scritto per mano del monaco Basilio".
Il prezioso scritto si conserva nella Biblioteca Vaticana, segnato col numero 1591, proveniente dal monastero di Grottaferrata, nei pressi di Roma.
Secondo il manoscritto citato i nostri Santi hanno subito il martirio nella persecuzione di Valeriano e precisamente nel 253.
I tre fratelli sono nati a Vaste, in provincia di Lecce, il padre Vitale apparteneva a famiglia patrizia e la madre, Benedetta, affrontò direttamente e spontaneamente l'autorità imperiale per manifestare la propria fede e sottoporsi al martirio. Il prefetto Nigellione, giunto a Vaste per indagare sulla presenza di cristiani, compie i primi interrogatori e, viste la costanza e la fermezza dei tre fratelli, decide di inviarli a Roma insieme con Onesimo, loro maestro, Erasmo, loro cugino, ed altri quattordici. Da Roma, dopo i primi supplizi, vengono mandati a Pozzuoli, dal prefetto Diomede, il quale sottopone alla pena di morte Erasmo, Onesimo e gli altri quattordici e invia i tre fratelli in Sicilia da Tertullo, a Taormina; qui vengono interrogati e tormentati e poi mandati a Lentini, sede ordinaria del prefetto, con l'ordine che il viaggio sia compiuto con una grossa trave sulle spalle. I tre giovani sono liberati dalla trave da una forte tempesta di vento; passano da Catania, dove vengono rinchiusi in una prigione, che ancora oggi è indicata con la scritta "Sanctorum Martyrum Alphii Philadelphi et Cyrini carcer", in una cripta sotto la chiesa dei Minoritelli; in questo viaggio, secondo un'antica tradizione molto diffusa, confortata peraltro da un culto mai interrotto, sono passati per Trecastagni, perché la normale via lungo la costa era impraticabile a causa di una eruzione dell'Etna. Nel cammino da Catania a Lentini avvengono vari prodigi e conversioni: si convertono addirittura i venti soldati di scorta e il loro capo Mercurio, che Tertullo fa battere aspramente e uccidere. Entrando in Lentini i tre fratelli liberano un bambino ebreo indemoniato e ammalato, convertono alla fede molti ebrei che abitano in quella città e che successivamente sono condannati alla lapidazione. Presentati a Tertullo sono sottoposti prima a lusinghe e poi ad ogni genere di supplizi: pece bollente sul capo rasato, acutissimi chiodi ai calzari, strascinamento per le vie della città sotto continue battiture. Sono prodigiosamente guariti dall'apostolo Andrea e operano ancora miracoli e guarigioni fino a quando Tertullo non ordina che siano sottoposti al supplizio finale: Alfio con lo strappo della lingua, Filadelfo posto su una graticola rovente e Cirino immerso in una caldaia di pece bollente. I loro corpi, trascinati in un luogo detto Strobilio vicino alle case di Tecla e Giustina, e gettati in un pozzo, ricevono dalle pie donne sepoltura in una grotta, ove in seguito viene edificata una chiesa.



Tratto da

http://sottolapietra.blogspot.it/p/i-tre-santi-a.html



Dopo la morte, la storia delle reliquie dei Tre fratelli si avvolge nel mistero, allo stesso modo è strettamente collegata con la storia di San Fratello.



Secondo gli storici fu Costantino, tredicesimo vescovo di Lentini intorno al 787 d.C., che intimorito dai pericoli di una imminente invasione musulmana, volle in gran segreto il trasferimento delle sacre reliquie.

A questo punto ci sono diversi documenti contradditori. Un documento ecclesiastico fa risalire al 1516 il ritrovamento delle reliquie dei Tre Santi nel monastero di San Filippo di Fragalà nel comune di Frazzanò, accompagnate da un manoscritto in greco antico.



La storia ipotizzata dagli studiosi narra che fu lo stesso Costantino Vescovo di Lentini a scrivere il manoscritto che accompagnava le reliquie:



Nell'anno del Signore Nostro Gesù Cristo, benedetto sia in eterno, io Costantino, vescovo dell'augusta Città di Lentini, fui costretto con grande dolore a portare con me, tutte le venerate reliquie dei Santi Patroni della chiesa Lentinese. I tempi in cui ho vissuto, furono assai gravi e tristi per tutti i cristiani. I Musulmani sono ormai alle porte della nostra amata terra di Sicilia. Anche la mia amata città è ormai in pericolo. Per questo, in forza della mia autorità ho traslato i Santi corpi dei miei Martiri, in luoghi più sicuri. Ho deciso pertanto di dirigermi, notte tempo, verso il Monastero della Gran Madre di Dio, Santa Maria dei Palati, della antica città di Alunzio, mia casa natale. Le gloriose reliquie che accuratamente avvolsi in drappi liturgici e accuratamente chiusi in casse con il presente scritto, sono dei miei diletti Santi Protettori:  Alfio, Filadelfo e Cirino e con loro anche le gloriose Vergini e Martiri Tecla, Giustina, Eutralia, Epifania, Eutropia, Isidora, i valorosi compagni dei tre fratelli, i Martiri Onesimo, Erasmo, ed ancora i Santi Cleonico, Caritone, Neofito, Mercurio, i sette fratelli testimoni muti di Cristo e tanti Martiri gloriosi. Diletti figli che vi accingete a venerare questi insigni fratelli della fede, ricordatevi di me che dalla furia devastatrice dei mori li ho salvati e pregate nostro Signore Gesù Cristo, perchè interceda presso il Padre, Affinchè mi accordi il perdono dei miei peccati. Vi benedico Costantino vescovo.



L'abate, informatone, si premurò di far tradurre il documento che confermò essere quelle ossa i resti umani dei tre giovani fratelli che erano stati martirizzati a Lentini. Grande fu la gioia dei monaci che, dopo una solenne processione, conservarono le reliquie nella loro chiesa, sotto l'altare da tempo consacrato ai tre martiri. La notizia ben presto giunse a Catania e poi a Lentini, dove in breve rivendicarono le reliquie dei Santi.



La spedizione decisiva giunse il 29 agosto 1517, di fronte al convento di Fragalà. Le reliquie furono alla fine consegnate dall'abate agli ambasciatori Lentinesi.



A Lentini si narra che il 2 settembre 1517, ottanta cavalieri entrarono al galoppo in città portando la cassetta con le reliquie dei santi Alfio, Filadelfo e Cirino. Questa fu consegnata ai sacerdoti della chiesa di Lentini e dopo una solenne processione custodita nella Chiesa dei Martiri.

Seguendo l’ipotesi degli storici, è probabile che a San Fratello le ossa furono portate dai monaci basiliani di San Filippo di Fragalà per sottrarli alle devastazioni arabe, giunte ormai anche alle porte del monastero. Non ci sono informazioni per capire se le ossa furono portate presso una costruzione o sotterrati in un punto indicato. Resta il fatto che la tradizione del luogo narra che fu un pastore a ritrovare le Sacre Reliquie dopo che in sogno S. Alfio gli aveva indicato il luogo esatto dove scavare. Un'altra storia attribuisce il ritrovamento direttamente ai Normanni che ripopolarono il Monte Vecchio intorno all’anno 1000.



Da tutto ciò si potrebbe dedurre che le ossa nonostante ebbero vita breve nel territorio di San Fratello, vestirono un ruolo significativo visto che nel XII secolo alcuni indizi ci fanno supporre già della presenza del Santuario dei Tre Santi sul Monte Vecchio e l’affermazione della denominazione “Tre Santi Fratelli/San Filadelfio” nel territorio dell’attuale San Fratello.

Sarebbe ragionevole pensare che, dopo il ritrovamento, le ossa tornarono al monastero di San Filippo di Fragalà e solo parte di queste reliquie vennero lasciate alla vicina città ai piedi della Roccaforte. Ma si pongono delle domande: "A Lentini nessuno sapeva nulla di questo ritrovamento?"

Visto che il reclamo ufficiale avvenne solamente dopo il ritrovamento del 1516 presso il monastero di San Filippo di Fragalà.



Da un’ipotetica data del XII secolo fino al fatidico 1516 ci sono vari testi che indicano il territorio di San Fratello già dedicato ai Tre Santi: "E' possibile che nessuna spedizione fu inviata alla ricerca delle ossa dei Santi?"

Tratto da

http://www.lentinionline.it/lentini_ss_santi.htm



La Storia dei Martiri: I fratelli, Alfio, Filadelfo e Cirino nascono da Vitale e Benedetta, genitori cristiani, nel III secolo d.C., nella cittadina di Vaste in provincia di Lecce. Furono Martiri della persecuzione romana contro i Cristiani, accusati all'epoca di provocare la generale rovina in cui era caduto l'impero romano. Nel 250 l'imperatore Decio emano' un editto con cui si esigeva che ogni persona sospettata di cristianesimo dovesse offrire incenso ad una qualsiasi divinita' romana, compreso l'imperatore. Il rifiuto di adorare l'imperatore sarebbe stato in sostanza il rifiuto di sottomettersi all'impero e i recalcitranti sarebbero stati condannati a morte. Ed in questo contesto storico alla fine del 251, mentre era a capo dell'impero Treboniano Gallo, succeduto a Decio, un plotone di soldati romani si presentarono a Vaste in Puglia nella casa patrizia di Vitale e Benedetta da Locuste. Hanno l'ordine di tradurre in catene i loro 3 giovani figli, rei di avere elusa la legge con la continua testimonianza di quella fede che avevano assimilato in famiglia. Vennero prima interrogati da Nigellione, delegato dell'imperatore per l'Italia meridionale, il quale, impotente a fiaccarne le loro convinzioni, li fece trasferire a Roma, convinto che, lontani dall'influenza del loro precettore Onesimo, sarebbero stati piu' cedevoli ai voleri delle autorita' imperiali. Qui giunti e rinchiusi nel carcere Memertino ai piedi del Campidoglio, subiscono un altro processo ad opera del prefetto Licinio, conclusosi con un nulla di fatto. Ma, se da un canto non si vuole infierire sui tre giovani fratelli, espressione di una delle piu' ragguardevoli famiglie dell'impero, dall'altro si pretende la loro sottomissione. Ecco perche' vengono trasferiti a Pozzuoli, ove neanche Diomede riesce a piegarli e successivamente in Sicilia, ove dettava legge Tertullo, giovane patrizio romano, che destinato come preside dell'isola, aveva acquistato fama di funzionario integerrimo ed autoritario. Sbarcati a Messina il 25 agosto del 252, i 3 fratelli subiscono un primo processo a Taormina, poi durante il loro doloroso e lungo pellegrinaggio, passano da Trecastagni, alle falde dell'Etna e infine vengono condotti a Lentini, sede di una delle dimore preferite da Tertullo, che per spezzarne la resistenza li volle a se vicini il 3 settembre 252, giorno del loro arrivo, affidandoli al suo vicario Alessandro, con il compito di sostituirlo nell'opera di persuasione durante i giorni in cui sarebbe stato fuori citta'. Viveva allora a Lentini Tecla, di nobile famiglia e ricca proprietaria, cugina di Alessandro e da oltre 6 anni colpita da paralisi alle gambe. Appunto per questo, saputo dei prodigi in nome di Cristo, che durante il tragitto da Roma a Lentini, avevano accompagnato i 3 fratelli,chiese al cugino di poter incontrare quei giovani per un ultimo tentativo di implorare, loro tramite, la sua guarigione. Richiesta che, dato l'immenso affetto che Alessandro nutriva per Tecla, venne esaudita con suo grande rischio in uno dei giorni di assenza di Tertullo. I 3 fratelli rimasero commossi alla vista di quella bella giovane immobilizzata sul letto le promisero che avrebbero pregato per lei. Durante la stessa notte a Tecla comparve in sogno l'apostolo Andrea che, segnatala con un segno di croce, la rassicuro' che sarebbe guarita grazie all'intercessione di quei giovani incarcerati da Tertullo. Cosi' fu. Ella si sveglio' guarita ed ancora con la complicita' dello sbigottito Alessandro, si volle recare subito al carcere per ringraziare i 3 giovinetti che d'allora continuo' a visitare ogni giorno di nascosto, assistendoli, confortandoli e portando loro da mangiare. La sua opera di assistenza purtroppo duro' poco, giacche' Tertullo, arresosi di fronte allo loro inflessibile costanza nella fede in Cristo, emano' la sua inappellabile sentenza, seguita dall'immediata esecuzione: dopo averli fatto girare ammanettati e frustati per le vie di Lentini, esposti allo scherno della plebe inferocita ed urlante, ad Alfio venne strappata la lingua, Filadelfo fu bruciato su una graticola, Cirino fu immerso in una caldaia di olio bollente. Era il 10 maggio del 253 ed Alfio aveva 22 anni e 7 mesi, Filadelfo 21, Cirino 19 e 8 mesi. Su ordine di Tertullo i loro corpi, martirizzati e privi di vita, furono legati con funi e trascinati in una foresta, chiamata "strobilio" per la gran quantita' di pini esistenti. Le spoglie vennero buttate in un pozzo secco, vicino alla casa di Tecla, che ,ormai convertita alla religione di Cristo, nella notte tra il 10 e 11 maggio, accompagnata dalla cugina Giustina e da 11 servi cristiani tra cui 5 donne, estrasse i corpi e, trasportatili in una campagna vicina, diede loro degna sepoltura, sfruttando una piccola grotta che e' quella esistente ancora nella chiesa di Sant'Alfio e sulla quale successivamente nel 261, placatesi le persecuzioni, venne eretto un grande tempio ed essi dedicato. Ancora oggi il 9,10 e 11 maggio di ogni anno si ricorda il martirio con una solenne festa Descrizione: http://www.lentinionline.it/bot_foto.gifche coinvolge l'intera popolazione di Lentini.

La Chiesa e i Martiri: Si concludeva cosi' la breve vita terrena dei tre Santi, ma il loro sangue non era stato versato invano: costitui' il seme di quella Chiesa Leontina che ebbe il privilegio di essere elevata a sede vescovile, privilegio' che tenne sino al 790. Il primo vescovo di Lentini fu Neofito, nuovo nome di quell'Alessandro, vicario di Tertullo, convertitosi anch'egli al cristianesimo e consacrato dallo steso Sant'Andrea nel 259. Seguirono Rodippo (290), Crispo (305), Teodosio Maratonide (338), Feliciano (372), Herodion (407), Teodosio (438), Crescenzio (496), Luciano I (538), Alessandro (600), Lucido (643), Luciano II (649), Costantino (787), con cui si chiude la serie storicamente accertata. Fu appunto quest'ultimo, intimorito dai pericoli di una imminente invasione musulmana, a volere in gran segreto il trasferimento delle sacre reliquie nel suo convento di Fragala' al principio del 9° secolo. e da allora i lentinesi non ne ebbero piu ' notizie. Sino al 22 settembre del 1516 quando alcuni operai, nell'abbattere un muro del monastero di Fragala', trovarono nascosta in un sacco di tela una cassetta contenente ossa umane ed un manoscritto in greco antico. Informato l'abate, questi si premuro 'di far tradurre il documento che confermo 'essere quelle ossa i resti umani dei 3 giovani fratelli che erano stati martirizzati a Lentini. Grande fu la gioia dei monaci che, dopo una solenne processione, conservarono le reliquie nella loro chiesa sotto l'altare da tempo consacrato ai 3 martiri. La notizia ben presto giunse a Catania e poi a Lentini, dove si decise di mandare 5 sacerdoti ed 1 laico alla Badia di Fragala' per sondare gli umori di quei monaci e nello stesso tempo per studiare la topografia del convento nel caso si dovesse optare per un ricorso alla forza. La missione non ebbe purtroppo un esito felice: sulla loro richiesta i monaci non si pronunciarono apertamente, avallarono diritti, chiesero di sentire prima i loro superiori. Al ritorno a Lentini questa presa di posizione fu illustrata dagli sconfitti ambasciatori ai loro concittadini che, desiderosi di avere al piu' presto i resti dei propri Martiri protettori, votarono all'unanimita' in assemblea di armare una spedizione per avere con la forza quello che non erano riusciti ad ottenere con la forza di quella legge naturale che dava loro il diritto al possesso delle sacre reliquie. Questa, al comando di Giovanni Musso, giunse sul far della notte del 29 agosto, di fronte al Convento di Fragala'. Dopo aver bussato ripetutamente e rassicurato i monaci delle loro intenzioni, i lentinesi, visti vani i tentativi di pacifico accesso, decisero l'azione di forza. In breve entrarono nel cortile. Ai monaci, impauriti per quella brusca invasione di armati, parteciparono ancora una volta il nobile scopo della loro missione, che altro non era di ritornare in possesso delle reliquie dei loro Santi protettori; reliquie che alla fine furono loro consegnati dall'abate. il 2 settembre 1517 quindi, 80 cavalieri entrarono al galoppo a Lentini, accolti dagli applausi, e portavano, sorretta da "fra servo di Dio" la cassetta con le reliquie dei Santi Alfio, Filadelfo e Cirino. Questa fu consegnata ai sacerdoti della chiesa di Lentini e dopo una solenne processione custodita nella Chiesa dei Martiri. Ma se il cittadino lentinese era stato soddisfatto nelle sue aspirazioni, la chiesa leontina, non poteva chiudere questo capitolo dell asua nobile storia con quell'atto di forza 'extra legem'. Mando' vari doni ai monaci di Fragala' e successivamente, tramite alla brillante arringa di difesa di Don Costantino, inviato espressamente dal senato Lentinese in Vaticano, chiese e ottenne dal sommo pontefice Leone X la conferma della titolarita' del possesso delle reliquie e la remissione di ogni censura.



Leggere anche




I Santi Martiri di Lentini

http://www.centamore.it/TreSanti/I_Santi_Martiri.asp

LA STORIA DEI SANTI MARTIRI: ALFIO FILADELFO E CIRINO


http://www.webalice.it/tedevi/salfio/LA%20STORIA%20DEI%20SANTI%20MARTIRI.htm




10 MAGGIO SANTI FRATELLI ALFIO,FILADELFO E CIRINO, MARTIRI A LENTINI Canone del tono IV ( senza acrostico) Di San Bartolomeo il Giovane da Rossano


sta in








Sante Tecla Giustina vergini ed Isidora   martire  a Lentini (tra il 250 e il 260



Tratto da http://ordovirginumsicily.blogspot.it/2012/01/le-sante-vergini-consacrate-del-mese-di_19.html



Tecla e Giustina nacquero, vissero e morirono a Lentini città in provincia di Siracusa, nell’arcidiocesi di Siracusa. Erano cugine di ricca e nobile stirpe. Isidora, madre di Tecla, fervente cristiana, subì il martirio e la figlia, colma di fervore per l’esempio della madre, si consacrò a Dio nella verginità, dedicandosi alla cura e alla protezione dei cristiani perseguitati. Ma una malattia che le paralizzò le gambe  la costrinse a rimanere a letto per sei lunghi anni. Intanto, a Lentini, al cospetto di Tertullo, arrivarono in catene tre giovani cristiani: Alfio, Filadelfo e Cirino.  Alessandro, ministro di Tertullo, informò la cugina Tecla del potere taumaturgico dei tre santi fratelli. Ed ella, mossa dal desiderio, chiese di poterli incontrare. In gran segreto ebbe modo di pregare con loro e di ascoltare la loro esortazione a mantenere salda la fede. Per grazia di Dio Tecla ritornò a camminare e, in segno di riconoscenza, si impegnò a visitarli di nascosto portando loro conforto materiale e consolazione spirituale, curando le loro ferite dovute alle continue torture e dando loro, alla fine, degna sepoltura in una grotta di sua proprietà. In questa esemplare opera di misericordia fù accompagnata dalla cugina Giustina, che cieca da un occhio ebbe la grazia della guarigione. Quando cessarono le persecuzioni  le stesse pensarono di costruire due chiese: una sopra la tomba dei santi fratelli martiri e l’altra dedicata alla beata Vergine Maria, cercando, insieme al cugino Alessandro, convertitosi al cristianesimo, di ravvivare la vita della comunità cristiana di Lentini. A tal proposito Tecla scrisse una lettera al vescovo di Roma affinchè tale comunità potesse ritornare ad essere guidata da un degno Pastore. Fu designato a tale missione proprio Alessandro e quando Everio, vescovo di Catania, presiedette la celebrazione di dedicazione della Chiesa della Vergine Maria, vedendo Tecla prostatasi dinanzi, esclamò: "Godi, o Signora, che hai consumato il corso delle prove e hai mantenuto la fede, gioisci amica dei martiri, compagna dei santi, che servisti nella loro vita e in loro memoria templi innalzasti. Sei veramente beata perché hai trovato la pace: Cristo Signore." Entrambe le sante resero serenamente lo spirito il 10 gennaio , Giustina nel 262 e Tecla nel 264 d.C. . La volta della Chiesa madre di Lentini è arricchita da un affresco in cui Giustina è al fianco di Tecla, la loro effige è anche rappresentata sulle ante del prezioso armadio della sagrestia.  Non si trova più la loro menzione nel nuovo Martirologio Romano, tuttavia ad ottobre la contrada Santuzzi, nel comune di Carlentini, al confine con quello di Lentini, festeggia come Santa Patrona e titolare della parrocchia S. Tecla vergine lentinese.