martedì 28 febbraio 2017

1 Marzo Saint LEON LUC (LEOLUCA), higoumène de Corleone en Sicile (vers 900).





San Leone Luca (Leoluca) di Corleone, abate (+ 918) patrono di Corleone e Vibo Valentia

Nell'anno 2006 a San Gregorio d'Ippona (VV) è stata ritrovata la tomba con le Reliquie del Santo Abate.


Tratto da http://www.santiebeati.it/dettaglio/92184


Nacque a Corleone, intorno all' 815-818, alla vigilia dell'invasione saracena della Sicilia. Al battesimo, i genitori gli imposero il nome di Leone. Cresciuto in seno ad una agiata famiglia di possidenti, ricevette una buona formazione religiosa e civile. Rimasto orfano ancor giovinetto, Leone dovette dedicarsi alla gestione del suo patrimonio e alla sorveglianza dei suoi armenti. Nella solitudine dei campi e nella contemplazione della natura, sentì nel suo cuore la chiamata del Signore. Ormai ventenne, Leone vendette tutti i suoi averi, distribuendo il ricavato ai poveri del paese.
Quindi lasciò Corleone e si ritirò nel monastero basiliano di San Filippo d'Agira, in territorio di Enna, dove si fermò per un breve periodo. Avendo intenzione di condurre vita eremitica, passò in Calabria. Prima però volle sciogliere un voto fatto alla partenza da Corleone, recandosi a Roma in pellegrinaggio, in visita alla tomba dei santi apostoli Pietro e Paolo. Ritornato in Calabria, chiese di essere accolto nel monastero basiliano di Santa Maria di Vena, presso l'attuale Vibo Valentia, dove l'abate Cristoforo gli impose il nome di Luca. Qui condusse una vita esemplare ed austera, fatta di umiltà e di obbedienza, non cessando mai di pregare e digiunare.
Alla morte di frate Cristoforo, gli fu affidata la guida della comunità, divenendone abate. Sotto la sua guida la comunità si accrebbe sempre di più; fondò altri conventi, adunando sotto la sua personale disciplina circa cento frati. L'elevatezza del suo sentimento religioso, la fama della sua santità e la vigoria fattiva del suo spirito si diffusero in tutta la regione, dando un impulso non indifferente al rinnovamento della sua nuova patria, la Calabria; a lui accorrevano quanti erano nel bisogno dello spirito e del corpo, ottenendo per mezzo della sua preghiera, grazie e guarigioni. Morì all'età di cento anni, dopo ottanta anni di vita monastica. Subito dopo la morte, per le sue eccelse virtù, venne proclamato santo e il suo culto si diffuse prima in tutta la Calabria, e quindi anche in Sicilia ormai libera dal dominio dei musulmani. I corleonesi vollero chiamare il loro Santo concittadino Leoluca, unendo al nome di battesimo Leone, quello monacale di Luca. Nel 1575, in occasione della peste che colpì la Sicilia, i suoi concittadini lo proclamarono Patrono e Protettore della città di Corleone. Questo santo invoca la fede popolare contro ogni male che possa arrecare danno alla città. Sia che si tratti di cataclismi naturali, terremoti, pestilenze e carestie o di eventi voluti dall’uomo, guerre ed invasioni straniere, ogni corleonese rimane incrollabilmente sicuro che invocare San Leoluca significa che la città possa passare indenne attraverso ogni calamità.
La festa di San Leoluca si celebra il 1° marzo, mentre l’ultima domenica di maggio si ricorda il miracolo operato dal Santo, che nel lontano 27 maggio 1860 apparve alle porte della città, risparmiando Corleone dall’assedio delle truppe borboniche.


Tratto da
http://www.italiamedievale.org/portale/leone-luca-corleone-sec-ix-x-bhl-4842/

Recenti scavi condotti dal prof. Achille Sodano, hanno portato alla luce i resti di un corpo umano in una grotta di Vibo Valentia, come informa la stampa locale del 3 dicembre 06 (Calabria Ora art. di Salvatore Berlingieri) e del 10 dicembre 06 (La Sicilia, art. di Dino Paternostro). Pare che siano da identificare con quelli di Leone Luca di Corleone[1]. Ma chi era?
Rinvenuto, allo stato attuale delle ricerche, in latino, il testo della Vita di Leone Luca di Corleone è stato e pubblicato nel 1657 dal gesuita siciliano Ottavio Gaetani, il quale precisava di averlo ricavato da tre manoscritti rinvenuti in Sicilia: uno a Palermo, un altro a Mazara e un terzo a Corleone. Qualche anno dopo i Bollandisti pubblicarono un’altra Vita, pure in latino, rinvenuta nella biblioteca di Giuseppe Acosta. I tre codici rinvenuti a Roma sono conservati rispettivamente: due nella Biblioteca Vallicelliana e uno nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Quindi, il testo della Vita di Leone Luca è stato pubblicato in latino da entrambi gli editori, che, però non hanno dato notizie della lingua dei codici utilizzati. La BHL 4842 riporta l’incipit e il desinit della Vita pubblicata dai due editori mentre la BHG non registra Leone Luca di Corleone. Nei due editori identico è il racconto ma il dettato è differente in quanto, dal punto di vista stilistico mentre i Bollandisti aderirono al primaevo stylo, il Gaetani invece modificò stylo paululum cultiore.
Nessuno dei manoscritti fino ad ora rivenuti fa riferimento ad una stesura in Calabria né ad un’originaria lingua in greco dell’agiografia di Leone Luca. Allo stato attuale delle ricerche non abbiamo alcun manoscritto agiografico in greco della Vita. Basta la presenza di antroponimi greci (quali ad es. Leone, Teotiste, Cristoforo, Teodoro, Eutimio) a postulare un’originaria stesura in greco? Oppure essa è riconducibile alla moda onomastica e/o a fattori culturali e/o ideologici? L’agiografia è stata composta subito dopo la morte del santo e in Calabria, ma potrebbe essere stata tramandata oralmente e poi scritta in epoca successiva in altro luogo. Se mai ci fu un testo in greco, si può forse affermare che la tradizione in latino sia una versione di quella in greco? Oppure si può pensare a due tradizioni indipendenti: quella in latino e quella in greco (se mai ci fu)? Non è rischioso parlare di originale in greco e di versione in latino?
Santo monaco italo-greco vissuto tra il IX-X secolo, Leone Luca nacque a Corleone di Sicilia da Leone e Teotiste, contadini e pastori. Ancora in giovane età rimase orfano di entrambi i genitori, abbandonò i lavori agricoli ed entrò novizio nel monastero di S. Filippo di Agira, dove ricevette la prima tonsura da un anziano monaco e il consiglio di emigrare in Calabria a causa della violente incursioni dei Saraceni in Sicilia. Raggiunta la Calabria, incontrò una pia donna, alla quale manifestò le tribolazioni dell’animo suo e le domandò un consiglio sul da farsi. E fu proprio tale donna che lo indusse ad abbracciare la vita monastica cenobitica. Quindi, mentre ad Agira aveva ricevuto la prima tonsura monastica e il consiglio di ricercare la quiete contemplativa in Calabria, perché non ancora devastata dalle scorrerie dei Saraceni; qui, invece, ricevette, da una savia donna, il consiglio di abbracciare la vita monastica cenobitica. Dopo la peregrinatio ad limina Apostolorumsi stabilì in Calabria, nel monastero sui monti Mula, divenendo discepolo dell’igumeno Cristoforo, che lo rivestì dell’abito monastico e gli cambiò il nome in Luca. Fondarono insieme un monastero nel territorio di Mercurio e un altro in quello di Vena e in quest’ultimo dimorarono fino alla morte. Designato igumeno del monastero di Vena dallo stesso Cristoforo morente, vi esplicò una funzione taumaturgica polivalente (guarì un lebbroso, dei paralitici e indemoniati). In punto di morte designò suoi successori Teodoro ed Eutimio, suoi discepoli. Dal monastero di Vena, dove morì, fu traslato, in seguito, a Monteleone in Calabria, dove fu eretta in suo onore la Chiesa Madre.
Come si diceva, Leone Luca fu nominato successore e igumeno dal morente Cristoforo, che gli affidò la cura pastorale del pusillum gregem, mentre Leone Luca, avendo fatto fruttificare –nel corso del suo igumenato- il talento affidatogli, assegnò, in punto di morte, la reggenza del monastero al discepolo Teodoro, cui ne affiancò in aiuto un altro di nome Eutimio. Entrambi (erano suoi discepoli dal momento che Leone Luca era igumeno di quello stesso monastero) assieme a tutti gli altri confratelli e discepoli del santo, attesero pure alle esequie del maestro.
Mentre Leone Luca aveva affiancato a Teodoro un altro monaco: Eutimio, affinché lo aiutasse nel difficile compito assegnatogli: quello di pastore ed erede; Leone Luca, invece, aveva retto l’igumenato da solo, così come si evince dalle parole di Cristoforo, suo maestro, che, in punto di morte, lo aveva nominato suo successore. Infatti, a differenza di Leone Luca, Cristoforo pronunzia solo un nome, appunto quello di Leone Luca come suo erede, invece quest’ultimo, come abbiamo detto, ne pronunzia due, quello di Teodoro ed Eutimio. Inoltre, dal momento che Leone Luca era l’igumeno del monastero, in cui vivevano anche Teodoro ed Eutimio, si evince che questi ultimi fossero suoi discepoli.
Leone Luca iniziò il suo ministero pastorale con due pabula, sia per alimentare nei suoi confratelli la carità, sia per esortarli a sfuggire i pettegolezzi. Li riportiamo per amore di completezza: un tempo, essendo un frate rimasto da solo e con un solo pane nel monastero, poiché gli altri erano usciti per lavorare, vide arrivare alcuni cacciatori stanchi e affamati, che gli chiesero del cibo. Mosso da carità verso il prossimo, non esitò a donare loro quell’unico pane, che aveva e qualche mela. Rimasto a digiuno, per tutto il giorno faticò nei lavori domestici fino a sera, quando, stanco e affamato, aperto l’uscio della sua cella, vi trovò tre pani caldi e bianchi, mandatigli da Dio in premio della sua generosità verso i cacciatori. L’altro episodio, narrato da Leone Luca, risale al tempo dell’igumeno Cristoforo, quando un confratello aveva offeso un umile. Per espiare la colpa del suo pettegolezzo si sottopose ad una rigida penitenza: soffrì per venti giorni e venti notti nudo il freddo sui monti di Mormanno. Ma un giorno, per sfuggire ad alcuni cacciatori proprio a causa della sua nudità, si immerse, per pudore, nell’acqua gelida fino al collo. A questo punto l’agiografo, e non Leone Luca, conclude l’esposizione dei due esempi, riportati dal maestro ai discepoli, con la seguente chiosa: Illa duo exempla beati Lucae esse suspicantur quae suo quidem tempore humilitatis causa de aliis protulit.
Quale che sia la natura dei due episodi -veri o inventati-, rimane sicuro il loro intento pedagogico: Leone Luca è il maestro e i confratelli sono discepoli (ivi compresi Teodoro ed Eutimio, designati suoi successori e precisamente :il secondo quale aiuto del primo).
Il procedimento di ‘racconto mascherato’, legato all’insegnamento orale impartito dal santo ai monaci, non vuol dire, a nostro avviso, che Leone Luca fosse colto. Gli episodi del ‘racconto mascherato’ non ci sembrano un buon motivo per rivalutare l’ipotesi dell’istruzione di Leone Luca in quanto entrambi tali episodi si basano sulla tradizione orale e sul ricordo. Proprio per questo crediamo che o Leone Luca li avrebbe vissuti in prima persona, o li avrebbe visti e in questo caso sarebbe egli stesso testimone oculare, o li avrebbe egli stesso appresi dall’igumeno Cristoforo, al tempo del quale proprio uno dei due episodi, come si diceva, risale. Proprio la tradizione orale, cui Leone Luca fa affidamento per esporre i due episodi a scopo didascalico ai suoi confratelli discepoli, non può provare, secondo la nostra opinione, che il santo fosse istruito. Crediamo, invece, che, pur essendo presente, all’inizio della Vita, il riferimento all’educazione impartita dai genitori al figlio, tale istruzione vada interpretata come invito ad una condotta morigerata e come segno di umiltà nei costumi. Ricordiamo, inoltre, che anche Pertusi menziona Leone Luca tra quei monaci «assolutamente illetterati» assieme a Filareto il Giovane, perché non avrebbero ricevuto in gioventù alcuna istruzione religiosa e non si sarebbero applicati allo studio della Sacra Scrittura, del Salterio e dell’innologia sotto la guida di un maestro spirituale. Pertusi pone l’accento sull’ incapacità di leggere e scrivere di quei monaci che considera «assolutamente illetterati». L’unica istruzione che ci sembra di riscontrare nel testo della Vita è quella morale, impartita, cioè, dai genitori al proprio figlio, che educarono alla semplicità. Non sappiamo –a meno che altri studi non daranno nuovi risultati- se Leone Luca sapesse leggere e scrivere tanto da accostarsi alla lettura e quindi allo studio delle Sacre Scritture, del Salterio e dell’innologia guidato, in quest’applicazione, da un maestro. Nè sappiamo come avvenne l’educazione religiosa impartitagli da Cristoforo. Possiamo ipotizzare –ma solo ipotizzare, in considerazione della mancanza di qualsiasi riferimento al libro manoscritto nella Vita e al suo uso-, che gli insegnamenti fossero impartiti oralmente e che lo stesso Leone Luca si facesse istruttore di insegnamenti (mediante pabula) da lui stesso impartiti oralmente.
2.RICOSTRUZIONE CRONOLOGICA
La Vita di Leone Luca non reca un’esplicita datazione del santo, però, sono presenti alcuni elementi interni, che, uniti alle precisazioni dei due editori, lasciano la possibilità di ricostruire la seguente cronologia, partendo da alcuni riferimenti di base:
il dies natalis (posto dal Gaetani nel 915) e il consensus codicum editorumque nel fissare il dies natalis al suo centesimo anno d’età. Se ne desume, pertanto, che la nascita del santo sarebbe avvenuta nell’815.
Da ciò ne consegue che:
– la tonsura e investitura monastica sui monti Mula da parte dell’igumeno Cristoforo, all’età di venti anni, sarebbe avvenuta nell’835, come già avevano notato Martire e Pandolfi;
– i 6 anni di permanenza nel monastero sui monti Mula, lasciano desumere che all’età di 26 anni, quindi tra l’841/42, se ne sarebbe allontanato per edificare altri due monasteri assieme all’igumeno Cristoforo.
– i 7 anni dell’edificazione del monastero in territorio di Mercurio lasciano desumere che esso sarebbe stato ultimato tra l’848/49, quando Leone Luca avrebbe avuto 33 anni.
– i 10 anni di permanenza di Leone Luca assieme all’igumeno Cristoforo nel monastero in territorio di Vena, cioè fino alla morte di padre Cristoforo, lasciano desumere che essa sarebbe avvenuta intorno all’858/59, quando Leone Luca avrebbe avuto 43 anni;
– la durata dell’incarico di igumeno dell’abbazia di Vena fino alla sua morte, avvenuta alla veneranda età di 100 anni, lascia desumere che sarebbe stato igumeno del monastero di Vena per 57 anni, appunto dalla morte di padre Cristoforo alla sua, che il Gaetani fissa al 915.
Se crediamo che Leone Luca sia morto nel 915 (come vuole il Gaetani), a cento anni (come vuole la tradizione manoscritta, accettata dagli editori), è comprensibile che la data di nascita sia l’815. A queste coordinate aggiungiamo i seguenti particolari, presenti nella narrazione: se consideriamo che a 20 anni avrebbe ricevuto l’investitura monastica sui monti Mula e se mettiamo in rapporto l’appellativo datogli dal Gaetani al momento del suo esodo dalla Sicilia (adolescens) e dai Bollandisti al momento del suo arrivo in Calabria (beatissimus puer) possiamo attribuirgli un’età di 17/18 anni al momento del suo esodo dalla Sicilia e fissarlo quindi all’832/33, accordandoci in questo con il Ménager. Cosa spingeva Leone Luca ad allontanarsi dalla Sicilia? Quale la situazione storica nella Sicilia del periodo? Nel sec. IX sopraggiungeva l’invasione araba con la caduta di Mazara nell’827, cui seguiva la caduta di Palermo e nel decennio seguente veniva conquistata tutta la valle di Mazara, dove gli Arabi fondarono le loro colonie. Nell’841-59 fu conquistata la Valle di Noto e infine, nell’843-902 la Valle di Demone. Dopo Taormina (902), con la caduta di Rametta (965), ultimo baluardo bizantino, ormai tutta la Sicilia era in mano agli Arabi. Nella Vita di Leone Luca quindi gli Arabi sono la minaccia incombente. Crediamo pertanto che sia usato anacronisticameente e/o allegoricamente il termine Vandali nella Vita in ricordo, forse, delle scorrerie vandaliche dei secoli precedenti con le quali quelle degli Arabi sono probabilmente paragonate per ferocia e crudeltà: i Vandali, sotto Genserico, invasero l’isola nell’autunno del 461, nella primavera del 462 e nuovamente nel 463. Una nuova scorreria vandalica in Sicilia fu respinta nel 465 da Marcellino, che, però, fu assassinato nel 468, anno in cui essi si insediarono definitivamente nell’isola. Il trattato di Genserico e Odoacre, che non pare essere anteriore al 24 agosto del 476 (rivolta di Odoacre) né posteriore al 24 gennaio del 477 (morte di Genserico), legalizza, infatti, l’autorità di Genserico su tutta la Sicilia. Il dominio vandalico nell’isola durò fino agli ultimi anni del 533 o i primi del 534, quando la Sicilia fu occupata dai Goti.
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[1] Su Leone Luca di Corleone si rimanda a: CARUSO S., Due casi di “racconto mascherato” nel bìos di S. Leone Luca di Corleone, in Quaderni di Cultura e di Tradizione classica, XII, 1994 [ma 1999], pp. 111-121. STELLADORO M., Il codice di Mazara della Vita di san Leone Luca di Corleone, in Codices Manuscripti 27-28, 1999, pp. 47-54. Ead., La tradizione manoscritta delle Vite di Leone Luca di Corleone, in BBGG, N.S. XLIII, pp. 61-82; Ead. (a cura di), La vita di s. Leone Luca di Corleone. Introduzione, testo latino, traduzione commentario e indici a cura di M. Stelladoro, Grottaferrata 1995; Ead., Note agiografiche sulla Vita di Leone Luca di Corleone (sec. IX-X) BHL 4842, in BB. GG. 1, SER. III, 2004, pp. 251-271.




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 San Leone Luca ( Leoluca ) di Corleone, abate ( + 918 ) patrono di
Corleone e Vibo Valentia

Nell'anno 815, nasceva a Corleone Leone. I genitori, Leone e
Teoctista, certamente di origini greco-bizantine, al Battesimo
imposero al bambino il nome del padre, Leone, come era tradizione.
Il piccolo Leone, cresciuto in seno ad una famiglia agiata,
possedimenti nel nostro territorio, ebbe modo di frequentare scuola e
l'ambiente del colto clero di rito greco, da cui ricevette, come in
famiglia, una buona formazione religiosa e civile. Rimasto orfano
d'ambo i genitori ancora giovanetto, Leone dovette applicarsi alla
gestione del suo patrimonio e alla sorveglianza dei suoi armenti. Ma,
nella solitudine dei campi e nella contemplazione della natura,
meditando nel silenzio gli insegnamenti del Vangelo, sentì prepotente
nel suo cuore l'invito del Signore: "... vendi tutto quello che hai,
distribuiscilo ai poveri e seguimi". Il giovane Leone, ormai
ventenne, non oppose alcuna resistenza a quella chiamata. Venduto
ogni suo avere e distribuito il ricavato ai poveri ed ai bisognosi,
rimasto povero lui stesso, lasciò la sua Corleone, per ritirarsi nel
Monastero basiliano di san Filippo d'Agira, in territorio di Enna. Ad
Agira, allora, esisteva uno dei più antichi e rinomati cenobi
basiliani.
I monaci , provenienti da tutta la Sicilia e dall'Oriente, oltre a
condurre una vita di penitenza e di contemplazione, si dedicavano
allo studio, alla ricerca e all'assistenza spirituale e materiale
delle popolazioni vicine, per cui il monastero era diventato un
centro di studi ed un faro di civiltà per il mondo greco-bizantino di
Sicilia. Leone non rimase molto tempo nel monastero di Agira, ma, per
consiglio del suo Superiore, passò in Calabria, avendo espresso
l'intenzione di condurre vita eremitica. Ma il Signore aveva
tracciato altre vie per il giovane Leone. Dovendo sciogliere un voto,
fatto alla partenza da Corleone, si recò pellegrino a Roma, per
visitare la tomba dei santi apostoli Pietro e Paolo e dei Martiri
cristiani.
Ritornato in Calabria, per consiglio ispirato di una santa donna
eremita, chiese di essere accolto nel monastero di santa Maria di
Vena presso Vibona, poi Monteleone Calabro.
In questa comunità, con somma pietà ed umiltà, si dedicò alla
preghiera, alla penitenza e al lavoro manuale, raggiungendo le vette
della contemplazione e della unione con Dio.
Era ancora novizio, quando il Signore volle manifestare i suoi segni
per mezzo del giovane Leone.
Dovendo rifornirsi di legna il convento, Leone si era recato in
compagnia di alcuni frati nel bosco vicino. Mentre ognuno preparava
la sua fascina, il giovane novizio, pieno di entusiasmo e spirito di
carità, fidando nella sua prestanza e robustezza, affastellò tanta
legna che, al momento di caricarsela sulle spalle, risultò superiore
alle sue forze. Subito divise la legna in due parti, pensando di
portarne prima un fascio al convento e poi ritornare a prendere
l'altro. Ma, partito dal bosco con il suo carico, i compagni
meravigliati videro che l'altro fascio si muoveva da solo sospeso al
suo fianco.
Non molto tempo dopo, mentre tagliava erba nell'orto, una vipera
velenosa lo morse ad una mano. Subito i frati cercarono di dargli
soccorso, ritenendolo in imminente pericolo di morte. Ma, il giovane
Leone, ritiratosi in preghiera in un angolo dell'orto, ritornò, poco
dopo, in comunità sano e salvo. Anche quella volta, i confratelli ne
rimasero ammirati e, da quel giorno, lo considerarono un vero amico
di Dio.
Trascorso il tempo del noviziato, nel vestire l'umile saio di san
Basilio, cinti i fianchi con una nodosa corda, Leone assunse il nome
di Luca.
Per circa dieci anni, visse nell'umiltà e nell'ubbidienza al seguito
del suo vecchio abate Cristoforo, che lo volle compagno nel suo
apostolato. Così venne a contatto con molti ambienti della desolata
terra di Calabria. In questo pellegrinare ebbe modo di mettere a
frutto la sua intelligenza, la sua capacità organizzativa e la sua
grande carità verso i poveri, i bisognosi, gli ammalati, gli
afflitti. Anche gli animali, indispensabile sostegno materiale per le
famiglie contadine, nella malattia e negli incidenti di lavoro furono
curati e guariti.
Intanto altri cenobi sorgevano in diverse parti della Calabria, ove
accorrevano molti giovani alla ricerca della santità e della
perfezione.
L'abate Cristoforo, giunto alle soglie della vita, convocati attorno
a sé tutti i monaci del convento, conferito a frate Luca il titolo di
Abate, gli affidò la guida della comunità.
Sotto la guida del nuovo e giovane abate, la comunità si accrebbe
ancor di più, raggiungendo i frati anche il numero di cento, i quali
con la loro carità ed operosità arrecavano grande sostegno morale e
materiale alle popolazioni locali e a quanti altri fuggivano dalla
Sicilia o da altre terre.
La fama della santità di vita dell'abate Luca e della sua grande
carità si diffuse in tutta la Calabria e a lui accorrevano quanti
erano nel bisogno dello spirito e del corpo, ottenendo, per mezzo
della sua preghiera, dal Signore e dalla Vergine Santissima, grazie e
guarigioni.
Aveva toccato già gli ottanta anni di vita monastica ed i cento di
età, quando prevedendo "con lume profetico" il giorno della sua
morte, fece chiamare attorno a sé tutti i monaci. Fatto accostare al
suo giaciglio il monaco Teodoro, alla presenza del sacerdote Eutimio,
lo nominò suo successore.
Dopo avere passato la notte in preghiera e nel digiuno, il mattino
seguente, come se nessun acciacco lo affliggesse, appoggiandosi al
suo nodoso bastone, si portò nella Chiesa del convento. Qui
circondato da tutti i monaci, assistette alla santa messa, ricevendo
la SS. Eucaristica come viatico. Verso mezzogiorno, fra le lacrime e
le preghiere dei confratelli, la sua anima, carica di meriti dinanzi
a Dio ed agli uomini, venne accolta nella casa del Padre.
Era il primo di marzo dell'anno 915.
Appena spirato, un inteso profumo di viole si diffuse per ogni angolo
del convento ed il suo volto divenne splendido e radioso; lo stesso
profumo si sentì per molto tempo ancora attorno alla sua tomba.
Intanto, un giovane frate, da parecchio tempo afflitto da febbre
perniciosa, pur barcollando, si accostò al corpo esanime del vecchio
abate e, nel baciarne il santo volto, fu istantaneamente guarito:
iniziò così la lunga serie di fatti straordinari, avvenuti dopo la
morte, per sua intercessione.
Il suo corpo, dopo il sincero compianto dei suoi figli spirituali e
di tutto il popolo accorso per venerare le sante spoglie, venne
sepolto accanto alla chiesa di santa Maria Maggiore o ad Nives
di Monteleone, nel luogo dove ancora esisteva la cella del Monastero,
in cui ottanta anni prima era stato accolto. Per molto tempo ancora
quella tomba divenne meta di devoti e pellegrini.
Su quel luogo, oggi, sorge il Duomo di Vibo Valentia, dedicato alla
Vergine Santissima e a san Leoluca. L'abate Luca, in vita era
considerato un uomo dalle eccezionali virtù, subito dopo la morte, a
gran voce, venne proclamato Santo, prima da tutto il popolo calabro e
poi dalla Chiesa Universale.
Per più di due secoli ancora, venne invocato con il nome di Luca ma,
alla fine del XII secolo, le Chiese di Calabria e di Sicilia, al fine
di non confondere il nostro Santo con altri santi ed abati "basiliani"
dello stesso nome, vollero unire il nome di religione Luca con quello
di battesimo Leone e così venne chiamato san Leoluca. A Corleone, la
fede in San Leoluca per secoli ha unito l'intera comunità, senza
distinzione tra credenti e non credenti.
Nell'anno 2006 a San Gregorio d'Ippona ( VV ) è stata ritrovata la
tomba con le Reliquie del Santo Abate.


Riflessione di Gabriele Rosario Cassata

da questa narrazione si evince una caratteristica del monachesimo italo-greco.
  • la non necessità della stabilitas loci, tipica del monachesimo benedettino. Il monaco dopo un tirocinio in monastero, va errando per trovare il proprio "deserto" per parlare con Dio, per trovare l'esichia. In monastero stanno monaci forti e ben saldi nella fede, maestri provati. Nel deserto, il monaco si fortifica e diventa a sua volta " Patir" - padre e maestro. Il monachesimo siculo-calabro-greco, non conosce la distinzione di micro o megalo schima,  ovvero picco o grande abito, che sta a distinguere i diversi gradi di perfezione monastica. Come afferma  il Grande Studita, uno solo è l'abito angelico. E sul fatto che i monachesimo siculo-calabro fosse di stampo prevalentemente studita lo dimostra anche il fatto che l'unica copia dell'Ipotiposis ( istruzioni monastiche)  di San Teodoro Studita è stata trovata in Sicilia.
  • Nomina diretta dell'egumeno, da parte dell'egumeno morente, tipico delle comunità monastiche siriaco-palestinesi (alcune  giunte in sicilia e calabria durante l'invasione persiana e le persecuzioni iconoclaste) e non come succederà in seguito con l'invasione dei normanni. I quali costituirono federazioni monastiche su stampo benedettino ( vedi archimandritato di Messina, Carbone, Casole ecc) in cui la sinassi monastica di un monasttero dipendente eleggeva il prorpio igumeno il quale doveva ricevere l'approvazione e benedizione  dell'Archimandrita,per potersi insediare validamente il quale poteva nominare a sua volta,  un abate per il monastero a lui sottoposto tra i monaci del proprio monastero.
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domenica 26 febbraio 2017

per il 27 febbraio San Luca di Messina



San Luca di Messina primo igumeno del Monastero del Santissimo Salvatore a Messina (27 febbraio 1149)

Tratto da http://www.fotebamessina.it/index.php?option=com_content&view=article&id=119&Itemid=1011
Il codice Messanensis Graecus 29 afferma che, tornato a Rossano dopo essere stato scagionato dall’accusa di eresia nel processo subìto a Messina, Bartolomeo di Simeri «chiamò il ieromonaco Luca, uomo di esimia santità ed altri dodici monaci tra i più degni e segnalati del suo gregge, e dopo aver diviso con loro libri, proventi e suppellettile domestica, dando loro anche molto denaro, dopo aver eletto Luca come egumeno del nuovo monastero del Salvatore […], li congedò con molti auguri» (M. SCADUTO, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale, 174). Gli accadimenti narrati nel manoscritto 29 non appaiono storicamente fondati; il racconto del fratello Daniele, apprezzabile sotto il profilo spirituale, appare carente in ordine all’esposizione cronologica degli eventi: l’amanuense anticipa di qualche anno quanto successe dopo la morte del primo igumeno della Nuova Odigitria, ovvero l’arrivo e la permanenza di Luca a Messina. L’incongruenza storica del monaco Daniele consiste nell’aver tralasciato un elemento di capitale importanza: Bartolomeo di Simeri era già defunto quando Luca, che tra l’altro gli successe come igumeno del Patir, lasciò la Calabria per recarsi a Messina. La circostanza trova conferma nella “Prefazione” del codice Messanensis Graecus 115, dallo stesso Luca redatta nel 1131: «In parte attenendoci ai comandi dei Padri e tenendo a memoria i consigli di quell’uomo defunto, se si debba chiamare uomo, e non con altra proprietà, perché visse una vita al di sopra di uomo: in parte anche al modo nostro considerando un sì grande officio come al di sopra della nostra forza; prima eravamo in ansia a cagione della proposta, e per una lodevole timidità differivamo. Come poi con maggiore veemenza sia anche con maggiore violenza il Regnante incalzava molestando, e in parte con preghiere, in parte con minacce, ci costrinse assoggettarci a questa da Dio amata superiorità» (LUCA ARCHIMANDRITA, Prefazione al Typikόn del Santissimo Salvatore, 29-30).
Nella prefazione lucana, Bartolomeo è ricordato come “uomo defunto”, e in effetti la nota mortuale contenuta nel foglio 6 del Vaticanus Graecus 1912 informa che trapassò nel monastero della Nuova Odigitria il 19 Agosto 1130. Il codice Vaticanus Latinus 8201 riferisce invece che Ruggero il Normanno decise la costituzione dell’archimandritato messinese nel Maggio 1131, mentre portava a termine la costruzione del monastero “in lingua phari”; fu allora, pertanto, che si pose il reale problema della guida del nuovo monastero e a quell’epoca deve collocarsi l’arrivo di Luca a Messina. La cronologia appena esposta, ormai unanimemente accettata dagli studiosi, porta a concludere che Luca approdò a Messina tra l’Agosto del 1130 (morte di Bartolomeo) e il Maggio del 1131 (diploma di Ruggero II), e che a lui si debba attribuire la fondazione della comunità monastica del Santissimo Salvatore.
Stabilitosi a Messina, su richiesta del sovrano, Luca iniziò una vigorosa opera di risanamento morale, spirituale e disciplinare dei monasteri, siciliani e calabresi, e in breve tempo poté scrivere che «con disprezzo furono sbandite al tutto la negligenza dei Monaci e la volgare maniera di vivere, e il commercio con chi si sia, le adozioni in sorelle e le conversazioni con donne, e le affinità spirituali con esse, e gli spessi incontri ed i viaggi con Monache. Completamente furono aboliti il vivere ad arbitrio ed il mangiare di nascosto, ed i cosi detti peculii, e gli a questi somiglianti, come corrompenti la Cenobitica condizione; e le zizanie del malvagio belligero, secreto seminatore del sordido ed infruttuoso frutto della sua malvagità tra il frumento della Chiesa purissimo ed al pari di perla» (LUCA ARCHIMANDRITA, Prefazione al Typikόn del Santissimo Salvatore, 31-32).
Il ristabilimento della disciplina monastica si rafforzò con la stesura, nel 1131, di un apposito Typikόn contenente le norme che Luca aveva stabilito per i suoi monaci, e che questi erano tenuti a rispettare e osservare. Qualche anno dopo, nel 1133, il libro tipico fu copiato e consegnato ai monasteri soggetti con l’obbligo di leggere ogni anno le regole lucane per ricordarne il valore normativo: «il Typikón del SS. Salvatore di Messina riflette il periodo di maggior splendore della liturgia italo-bizantina» (R. IACOPINO, Il Typikón della Cattedrale di Bova, 61).
Nel 1133, Re Ruggero confermò il diploma del Maggio 1131 e ai monasteri già assoggettati, ceduti dal vescovo Ugo con apposito Privilegium, ne aggiunse altri. L’anno seguente, l’energico igumeno del monastero regio, distintosi per fermezza e fedeltà alla corona, fu insignito del titolo di archimandrita: «nel 1134 dal Re Ruggiero fu elevato alla dignità di Archimandrita» (F. MATRANGA, Catalogo Descrittivo del Cartofilacio, 198). Il 27 Febbraio 1149 Luca di Rossano, primo archimandrita del Santissimo Salvatore, rese l’anima a Dio. Le sue spoglie mortali furono composte in un sarcofago marmoreo di epoca tardoromana (V-VI secolo) e onorate con l’incisione di un epitaffio celebrativo.
La riforma dell’archimandrita Luca fece rifiorire la spiritualità monastica nell’Italia meridionale normanna e portò alla ripresa e all’affermazione delle tradizioni religiose bizantine. L’attività monastica del Santissimo Salvatore, modellata anche sulla riforma studita di Costantinopoli, diede nuovo impulso alla dimensione culturale: la produzione e la trascrizione dei codici nello studium del Santissimo Salvatore fece dell’archimandritato una fucina di scienza e assicurò la trasmissione della più nobile conoscenza biblica, patristica, liturgica, ecclesiastica e profana.



Tratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Luca_di_Messina

Nasce a Rossano in un anno imprecisato della seconda metà dell'XI secolo
Noto per la sua santità, fu nominato dal Re di Sicilia Ruggero II, dapprima Igumeno (cioè Superiore) e poi, nel 1134, Archimandrita del protomonastero del Santissimo Salvatore di Messina. Giunse nella Città dello Stretto, seguito da dodici monaci  tra il mese di agosto del 1130 e il mese di maggio del 1131, quando ancora l'edificazione del monastero non era stata ultimata; dev'essere considerato il vero fondatore dell'Archimandritato del Santissimo Salvatore di Messina
Il Re di Sicilia Ruggero II gli concesse numerosi privilegi, infatti poteva fregiarsi del titolo di Archimandrita e il suo monastero non soggiaceva ad alcuna autorità ecclesiastica e secolare, dipendendo direttamente dal sovrano normanno. Dal suo monastero dipendevano numerosi cenobi  sparsi per il Val Demone.
Dopo aver constatato il decadimento morale e spirituale in cui era caduto il monachesimo basiliano della Sicilia e della Calabria meridionale, mise mano alla redazione del Typicon, per ricordare ai monaci le regole di vita che avevano accettate indossando l'abito monacale.
Tra i numerosi privilegi ricevuti dalla monarchia normanna di Sicilia, di precipua importanza fu la signoria feudale sulla Terra di Savoca, con poteri di mero e misto imperio, che si protrasse per tutti i suoi successori fino al 1818.
L'Archimandrita Luca morì a Messina il 27 febbraio 1149; i suoi resti mortali furono riposti in un sarcofago di epoca tardo romana, successivamente traslato nei pressi della Chiesa di San Giovanni di Malta, e oggi custodito nel Museo Regionale peloritano.
Gli succedette, quale Archimandrita del SS Salvatore, Luca II.
La riforma dell'Archimandrita Luca I, favorì il rinnovamento della spiritualità monastica nell'Italia Meridionale normanna, rappresentando il tentativo di sopravvivenza dell'elemento greco in un territorio in cui andava ormai dilagando quello latino

Tratto  da: Roberto Romeo "Alle fonti del diritto liturgico orientale". Atti-Convegni-Ricerche ISSR - Messina. Anno 2011.
Nell’esposizione degli accadimenti storici legati alla fondazione del SS. Salvatore di Messina, lo Scaduto, appoggiandosi al dettato del Messan. Gr. 29, volendo dimostrare che a Bartolomeo di Simeri si può riconoscere solo un’incipiente influenza sul progetto di Ruggero II e non la fondazione propriamente detta del monastero messinese, asserisce che in seguito al processo tenutosi a Messina davanti alla regia corte, durante il quale Bartolomeo fu discolpato dalle accuse a lui mosse, il santo monaco ottenne di tornare a Rossano. Dal Patir, non volendo venir meno alle promesse fatte al re normanno, Bartolomeo:
“chiamò il ieromonaco Luca, uomo di esimia santità ed altri dodici monaci tra i più degni e segnalati del suo gregge, e dopo aver diviso con loro libri, proventi e suppellettile domestica, dando loro anche molto denaro, dopo aver eletto Luca come egumeno del nuovo monastero del Salvatore […], li congedò con molti auguri” .
Mario Scaduto, in realtà, ripropone erroneamente quanto il monaco Daniele aveva travisato nella copiatura della sua fonte: il manoscritto di Filagato .
L’antico biografo di Bartolomeo, volendo legare la figura e la santità dell’insigne monaco all’importante costruzione messinese, anticipa di qualche anno quanto successe dopo la sua morte. Bartolomeo di Simeri era già defunto quando Luca – nuovo igumeno del Patir – attraversò lo Stretto con i suoi compagni per stabilirsi a Messina ; nella Prefazione al suo τυπικὸν, infatti, lo stesso Luca afferma che:
“In parte attenendoci ai comandi dei Padri e tenendo a memoria i consigli di quell’uomo defunto, se si debba chiamare uomo, e non con altra proprietà, perché visse una vita al di sopra di uomo: in parte anche al modo nostro considerando un sì grande officio come al di sopra della nostra forza; prima eravamo in ansia a cagione della proposta, e per una lodevole timidità differivamo. Come poi con maggiore veemenza sia anche con maggiore violenza il Regnante incalzava molestando, e in parte con preghiere, in parte con minacce, ci costrinse assoggettarci a questa da Dio amata superiorità” .
La Prefazione, inoltre, fa sapere che i monaci, giunti a Messina, trovarono il monastero non ancora terminato , e una nota dello stesso Messan. Gr. 115 precisa che i lavori di costruzione del SS. Salvatore si protrassero dal 1122 al 1132:
“Il principio della fabbrica del venerabile Tempio e del Santo monastero dell’Acroterio ebbe inizio al tempo della prima indizione dell’anno 6630 […] e la fabbrica di questa durò 10 anni e fu compiuta nel mese di giugno della indizione X dell’anno 6640[…]” .
Considerando che Ruggero II decise la costituzione dell’archimandritato messinese nel maggio 1131 , mentre portava a termine la costruzione del monastero in lingua phari, sembra ragionevole affermare che Luca giunse a Messina tra l’agosto del 1130 (morte di Bartolomeo) e il mese di maggio del 1131 (diploma di Ruggero II) e che debba essere considerato il vero fondatore del SS. Salvatore .
Il 1131, inoltre, segna l’anno delle riforme ecclesiastiche volute da Ruggero II in accordo con l’antipapa Anacleto II (1131-1138) . La riorganizzazione delle chiese siciliane prevedeva, tra l’altro, un nuovo statuto del monachesimo greco che riconosceva al nascente monastero di Messina e al suo igumeno un ruolo guida nel panorama dei monasteri greci esistenti sul territorio.
Lo stesso Ruggero II, nel diploma emanato a Palermo nel maggio 1131, ancor prima che la costruzione del SS. Salvatore fosse portata a compimento, aveva determinato la condizione giuridica del suo monastero attribuendogli numerosi privilegi : il cenobio in lingua phari era costituito casa madre di tutti i monasteri e soltanto l’igumeno messinese poteva fregiarsi del titolo di archimandrita; questi doveva essere eletto dall’intera comunità monastica e l’elezione doveva essere ratificata dal re. Il monastero di Messina non soggiaceva ad alcuna autorità ecclesiastica e secolare ma dipendeva direttamente dal sovrano; l’archimandrita poteva liberamente chiamare al monastero peloritano monaci di altri cenobi senza che alcuno potesse opporsi .
Ruggero II convinse l’arcivescovo di Messina, Ugo, a riconoscere l’autorità dell’archimandrita su tutti i monasteri greci ricadenti sotto la giurisdizione dell’Ordinario latino. Ugo, accettando il compromesso del sovrano che gli confermava il diritto di censo e il privilegio di consacrare le chiese greche e gli olii santi, nell’ottobre del 1131 cedette al SS. Salvatore i trentatre monasteri esistenti nel territorio della sua diocesi . Il re normanno sostenne il monastero con ogni mezzo, specie con ricche donazioni e numerosi privilegi, tutti attestati con impressionante accuratezza nel Vat. Lat. 8201 .
La figura dell’archimandrita Luca è da leggere in questo contesto di grandi fermenti innovativi. Stabilitosi a Messina, su richiesta di Ruggero II, Luca cominciò a visitare i monasteri siciliani e calabresi costatando ovunque un certo decadimento morale e spirituale :
“Con disprezzo furono sbandite al tutto la negligenza dei Monaci e la volgare maniera di vivere, e il commercio con chi si sia, le adozioni in sorelle e le conversazioni con donne, e le affinità spirituali con esse, e gli spessi incontri ed i viaggi con Monache. Completamente furono aboliti il vivere ad arbitrio ed il mangiare di nascosto, ed i cosi detti peculii, e gli a questi somiglianti, come corrompenti la Cenobitica condizione; e le zizanie del malvagio belligero, secreto seminatore del sordido ed infruttuoso frutto della sua malvagità tra il frumento della Chiesa purissimo ed al pari di perla” .
Al fronte di una simile situazione, nell’anno 1131 Luca mise mano alla redazione del τυπικὸν per ricordare ai monaci le regole di vita che avevano accettate indossando l’abito monacale. Qualche anno dopo, nel 1133, una copia del τυπικὸν di Luca fu consegnata ai superiori di tutti i monasteri con l’obbligo di leggere annualmente alla comunità le regole stabilite dall’igumeno del SS. Salvatore .
Dell’anno 1133 è pure il diploma di Ruggero II che sancì la nuova costituzione dell’archimandritato messinese e confermò la funzione primaziale di Luca nel monastero in lingua phari . Il documento regio, diversamente da quanto stabilito nel Privilegium dell’arcivescovo Ugo, assoggettava al SS. Salvatore trentanove monasteri divisi in due gruppi: cenobi minori e monasteri autocefalici o autodespotici; i primi erano posti alle dirette dipendenze dell’archimandrita che li governava per mezzo di economi da lui nominati, i secondi erano affidati alla guida di igumeni propri, eletti dalle rispettive comunità monastiche. I monasteri autocefalici, però, rimanevano soggetti all’archimandrita per le questioni particolarmente gravi che richiedevano l’intervento dell’autorità superiore: cattiva amministrazione dei beni, illegittima elezione degli igumeni ed eventuale rielezione del consiglio di comunità .
Istituito l’archimandritato, Ruggero II scelse l’archimandrita: l’igumeno Luca, che si era distinto per chiare virtù ed energico governo pastorale, veniva investito della massima dignità monastica: “nel 1134 dal Re Ruggiero fu elevato alla dignità di Archimandrita” .
Solo nel 1134, dunque, in seguito all’affermarsi della sua autorità, Luca divenne archimandrita e tale rimase fino alla morte; dal 1131 - epoca della fondazione del monastero - al 1134 fu soltanto l’igumeno della mandra messinese.
L’archimandrita Luca sopravvisse ancora quindici anni; la morte lo colse tre giorni prima delle calende di marzo, in giorno di sabato, all’ora terza, nell’anno 6657 , vale a dire il 27 febbraio 1149 .
La riforma dell’archimandrita Luca, se da una parte favorì il rinnovamento della spiritualità monastica nell’Italia meridionale normanna, dall’altra rappresentò il tentativo di sopravvivenza dell’elemento greco in un territorio nel quale andava ormai dilagando quello latino. Il grande merito di Luca e dei monaci dello studium del SS. Salvatore, tuttavia, rimane quello di aver permesso al canone calligrafico bizantino di giungere in Italia.



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sabato 25 febbraio 2017

26 Febbraio San Gerlando Vescovo di Agrigento



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26 febbraio


seppure per il periodo in cui visse -successivo allo scisma come datazione ma siamo sempre nel periodo ancora della prima fase di transizione - vorrei anche presentare alla nostra meditazione




San Gerlando Vescovo di Agrigento




San Gerlando nacque a Besançon, nel terzo o quarto decennio del sec.XI; studiò e insegnò nelle scuole capitolari di S. Paolo della stessa


Città. Compose varie opere sulle discipline del trivio e del


quadrivio.Divenne famoso con il Computus, per cui fu detto: Computista. Con la sua Dialettica contribuì alla formazione della prima scolastica.


Fu chiamato in Sicilia dal conquistatore Ruggero che lo destinò alla sede agrigentina da lui ricostituita.


Ruggero nel 1093 assegnò i confini della Diocesi e diede a lui e ai suoi successori il casale Cattà (probabilmente presso Raffadali) con cento villani. Consacrato Vescovo da Urbano II - che, in una bolla del 1099, gli diceva: "Karissime Frater Gerlande, quem omnipotens


Dominus... nostris tamquam Beati Petri manibus consecrare dignatus est" - con la predicazione e le opere di carità rievangelizzò le nostre terre.


Costruì la Cattedrale e la casa episcopale e, per dodici anni, con zelo instancabile convertì musulmani e giudei, dimostrandosi sempre, come narra la sua Legenda "in paupertate largus, in caritate splendidus, in hospitalitate pius, in exortacione sollicitus, in


consilio providus… in omni morum honestate preclarus". Morì il 25 febbraio 1100 e fu canonizzato nel 1159.


... Le fonti parlano di predicazione dolce come il miele, splendore di chiarezza: capace di convincere Ebrei e Musulmani a seguire GesùCristo. Il Pirro afferma che i normanni l'ebbero caro per la


sapienza. E l'inno liturgico canta:" Il santo nome del Salvatore diventa credibile per la virtù dei pastori ...


Il messaggio della potenza del Vangelo è contenuto in modo possibile nell'immagine di S. Gerlando raffigurata nel Duomo di Monreale.


Le sue mani, simbolo dell'attività umana, sono occupate: quella di sinistra presentando il Vangelo luce del mondo e via della vita,


quella di destra componendo con l'indice ed il medio l'iniziale e la finale in lingua greca della parola Gesù e, con l'anulare incrociato con il pollice e il mignolo, iniziale e la finale di Cristo, come è dato anche di vedere nel Cristo Pantocratore del Duomo di CefaIù e di


Istambul. Questo tuttavia è troppo poco.


I suoi occhi, specchio dell'anima, sono intensamente rivolti verso illato del Vangelo, ad un mondo destinato ad esserne rischiarato.


La sua bocca quasi rinserrata, richiama a quelle orecchie, molto sviluppate ad indicare l'attenzione a " tutto quello che Gesù ci ha insegnato ".


La tonsura, segno di appartenenza a Cristo, col filo rosso che delimita il capo, esprime la trasfigurazione in Tempio dello Spirito di chi è aperto a Cristo.


La potenza trasformante del Vangelo è ancora descritta dal paramento sacerdotale azzurro segnato da linee rosse. Per gli artisti Bizantini


l'azzurro esprime l'umanità, ad indicare il potere umanizzante della parola di Gesù e ancora più la divinizzazione dell'uomo legata al


progetto del Padre. È stupendo il messaggio che viene da quel Vangelo chiuso ma


presentato da quattro dita, ad indicare i quattro punti cardinali, simbolo della destinazione a tutti gli uomini del mondo.


Un Vangelo chiuso, che con le quattro borchie laterali richiama i quattro Evangelisti e con quella centrale richiama Cristo, centro del


mondo; potenza di un messaggio che richiama la pianta dell'altare bizantino, sostenuto da quattro colonne laterali e da una centrale ad indicare la comunità riunita attorno al Risorto ed in ascolto di


quello che gli Evangelisti ci hanno detto di Lui.


Potenza dei Vangelo che conduce alla comunione con Cristo che ci


partecipa la comunione con il Padre, la sua forza di vita su una cultura di morte e ci fa Chiesa per la via dei mondo.


Questa potenza trasformante è descritta dallo sfondo in oro, che indica la luce del Paradiso nel cammino della Chiesa, che richiama i


fiumi di grazia che sorgono dal sacrificio di Cristo.


Potenza del Vangelo, espressa dalla stola sacerdotale, segno di forza


e di franchezza nell'annunzio dell'unico Salvatore e Redentore


dell'uomo, che richiama, nella parte terminale che è visibile


nell'azzurro della croce, il dramma della Passione e Morte di Cristo


e nel disegno in rosso e oro sottostante, divinizzazione e gloria


divina da partecipare a chi si apre e si converte a Cristo.


Persino le scarpe, segno della preziosità del personaggio nelle icone


bizantine, richiamano ad una evangelizzazione in cammino verso i


fratelli. L'artista ha cosi espresso la potenza del Vangelo nella


vita di S. Gerlando!.


Chiesa dei Signore, con l'ardore di S. Gerlando, annunzia la lieta


notizia a tutti e testimonia oggi la storia dell'amore che ti ha


conquistata, della grazia che ti santifica, della gloria divina che


ti è donata, della verità che illumina il tuo cammino "


( dall'Omelia dell'Arcivescovo Emerito Carmelo Ferraro del


25/2/1991 )