martedì 28 febbraio 2017

1 Marzo Saint LEON LUC (LEOLUCA), higoumène de Corleone en Sicile (vers 900).





San Leone Luca (Leoluca) di Corleone, abate (+ 918) patrono di Corleone e Vibo Valentia

Nell'anno 2006 a San Gregorio d'Ippona (VV) è stata ritrovata la tomba con le Reliquie del Santo Abate.


Tratto da http://www.santiebeati.it/dettaglio/92184


Nacque a Corleone, intorno all' 815-818, alla vigilia dell'invasione saracena della Sicilia. Al battesimo, i genitori gli imposero il nome di Leone. Cresciuto in seno ad una agiata famiglia di possidenti, ricevette una buona formazione religiosa e civile. Rimasto orfano ancor giovinetto, Leone dovette dedicarsi alla gestione del suo patrimonio e alla sorveglianza dei suoi armenti. Nella solitudine dei campi e nella contemplazione della natura, sentì nel suo cuore la chiamata del Signore. Ormai ventenne, Leone vendette tutti i suoi averi, distribuendo il ricavato ai poveri del paese.
Quindi lasciò Corleone e si ritirò nel monastero basiliano di San Filippo d'Agira, in territorio di Enna, dove si fermò per un breve periodo. Avendo intenzione di condurre vita eremitica, passò in Calabria. Prima però volle sciogliere un voto fatto alla partenza da Corleone, recandosi a Roma in pellegrinaggio, in visita alla tomba dei santi apostoli Pietro e Paolo. Ritornato in Calabria, chiese di essere accolto nel monastero basiliano di Santa Maria di Vena, presso l'attuale Vibo Valentia, dove l'abate Cristoforo gli impose il nome di Luca. Qui condusse una vita esemplare ed austera, fatta di umiltà e di obbedienza, non cessando mai di pregare e digiunare.
Alla morte di frate Cristoforo, gli fu affidata la guida della comunità, divenendone abate. Sotto la sua guida la comunità si accrebbe sempre di più; fondò altri conventi, adunando sotto la sua personale disciplina circa cento frati. L'elevatezza del suo sentimento religioso, la fama della sua santità e la vigoria fattiva del suo spirito si diffusero in tutta la regione, dando un impulso non indifferente al rinnovamento della sua nuova patria, la Calabria; a lui accorrevano quanti erano nel bisogno dello spirito e del corpo, ottenendo per mezzo della sua preghiera, grazie e guarigioni. Morì all'età di cento anni, dopo ottanta anni di vita monastica. Subito dopo la morte, per le sue eccelse virtù, venne proclamato santo e il suo culto si diffuse prima in tutta la Calabria, e quindi anche in Sicilia ormai libera dal dominio dei musulmani. I corleonesi vollero chiamare il loro Santo concittadino Leoluca, unendo al nome di battesimo Leone, quello monacale di Luca. Nel 1575, in occasione della peste che colpì la Sicilia, i suoi concittadini lo proclamarono Patrono e Protettore della città di Corleone. Questo santo invoca la fede popolare contro ogni male che possa arrecare danno alla città. Sia che si tratti di cataclismi naturali, terremoti, pestilenze e carestie o di eventi voluti dall’uomo, guerre ed invasioni straniere, ogni corleonese rimane incrollabilmente sicuro che invocare San Leoluca significa che la città possa passare indenne attraverso ogni calamità.
La festa di San Leoluca si celebra il 1° marzo, mentre l’ultima domenica di maggio si ricorda il miracolo operato dal Santo, che nel lontano 27 maggio 1860 apparve alle porte della città, risparmiando Corleone dall’assedio delle truppe borboniche.


Tratto da
http://www.italiamedievale.org/portale/leone-luca-corleone-sec-ix-x-bhl-4842/

Recenti scavi condotti dal prof. Achille Sodano, hanno portato alla luce i resti di un corpo umano in una grotta di Vibo Valentia, come informa la stampa locale del 3 dicembre 06 (Calabria Ora art. di Salvatore Berlingieri) e del 10 dicembre 06 (La Sicilia, art. di Dino Paternostro). Pare che siano da identificare con quelli di Leone Luca di Corleone[1]. Ma chi era?
Rinvenuto, allo stato attuale delle ricerche, in latino, il testo della Vita di Leone Luca di Corleone è stato e pubblicato nel 1657 dal gesuita siciliano Ottavio Gaetani, il quale precisava di averlo ricavato da tre manoscritti rinvenuti in Sicilia: uno a Palermo, un altro a Mazara e un terzo a Corleone. Qualche anno dopo i Bollandisti pubblicarono un’altra Vita, pure in latino, rinvenuta nella biblioteca di Giuseppe Acosta. I tre codici rinvenuti a Roma sono conservati rispettivamente: due nella Biblioteca Vallicelliana e uno nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Quindi, il testo della Vita di Leone Luca è stato pubblicato in latino da entrambi gli editori, che, però non hanno dato notizie della lingua dei codici utilizzati. La BHL 4842 riporta l’incipit e il desinit della Vita pubblicata dai due editori mentre la BHG non registra Leone Luca di Corleone. Nei due editori identico è il racconto ma il dettato è differente in quanto, dal punto di vista stilistico mentre i Bollandisti aderirono al primaevo stylo, il Gaetani invece modificò stylo paululum cultiore.
Nessuno dei manoscritti fino ad ora rivenuti fa riferimento ad una stesura in Calabria né ad un’originaria lingua in greco dell’agiografia di Leone Luca. Allo stato attuale delle ricerche non abbiamo alcun manoscritto agiografico in greco della Vita. Basta la presenza di antroponimi greci (quali ad es. Leone, Teotiste, Cristoforo, Teodoro, Eutimio) a postulare un’originaria stesura in greco? Oppure essa è riconducibile alla moda onomastica e/o a fattori culturali e/o ideologici? L’agiografia è stata composta subito dopo la morte del santo e in Calabria, ma potrebbe essere stata tramandata oralmente e poi scritta in epoca successiva in altro luogo. Se mai ci fu un testo in greco, si può forse affermare che la tradizione in latino sia una versione di quella in greco? Oppure si può pensare a due tradizioni indipendenti: quella in latino e quella in greco (se mai ci fu)? Non è rischioso parlare di originale in greco e di versione in latino?
Santo monaco italo-greco vissuto tra il IX-X secolo, Leone Luca nacque a Corleone di Sicilia da Leone e Teotiste, contadini e pastori. Ancora in giovane età rimase orfano di entrambi i genitori, abbandonò i lavori agricoli ed entrò novizio nel monastero di S. Filippo di Agira, dove ricevette la prima tonsura da un anziano monaco e il consiglio di emigrare in Calabria a causa della violente incursioni dei Saraceni in Sicilia. Raggiunta la Calabria, incontrò una pia donna, alla quale manifestò le tribolazioni dell’animo suo e le domandò un consiglio sul da farsi. E fu proprio tale donna che lo indusse ad abbracciare la vita monastica cenobitica. Quindi, mentre ad Agira aveva ricevuto la prima tonsura monastica e il consiglio di ricercare la quiete contemplativa in Calabria, perché non ancora devastata dalle scorrerie dei Saraceni; qui, invece, ricevette, da una savia donna, il consiglio di abbracciare la vita monastica cenobitica. Dopo la peregrinatio ad limina Apostolorumsi stabilì in Calabria, nel monastero sui monti Mula, divenendo discepolo dell’igumeno Cristoforo, che lo rivestì dell’abito monastico e gli cambiò il nome in Luca. Fondarono insieme un monastero nel territorio di Mercurio e un altro in quello di Vena e in quest’ultimo dimorarono fino alla morte. Designato igumeno del monastero di Vena dallo stesso Cristoforo morente, vi esplicò una funzione taumaturgica polivalente (guarì un lebbroso, dei paralitici e indemoniati). In punto di morte designò suoi successori Teodoro ed Eutimio, suoi discepoli. Dal monastero di Vena, dove morì, fu traslato, in seguito, a Monteleone in Calabria, dove fu eretta in suo onore la Chiesa Madre.
Come si diceva, Leone Luca fu nominato successore e igumeno dal morente Cristoforo, che gli affidò la cura pastorale del pusillum gregem, mentre Leone Luca, avendo fatto fruttificare –nel corso del suo igumenato- il talento affidatogli, assegnò, in punto di morte, la reggenza del monastero al discepolo Teodoro, cui ne affiancò in aiuto un altro di nome Eutimio. Entrambi (erano suoi discepoli dal momento che Leone Luca era igumeno di quello stesso monastero) assieme a tutti gli altri confratelli e discepoli del santo, attesero pure alle esequie del maestro.
Mentre Leone Luca aveva affiancato a Teodoro un altro monaco: Eutimio, affinché lo aiutasse nel difficile compito assegnatogli: quello di pastore ed erede; Leone Luca, invece, aveva retto l’igumenato da solo, così come si evince dalle parole di Cristoforo, suo maestro, che, in punto di morte, lo aveva nominato suo successore. Infatti, a differenza di Leone Luca, Cristoforo pronunzia solo un nome, appunto quello di Leone Luca come suo erede, invece quest’ultimo, come abbiamo detto, ne pronunzia due, quello di Teodoro ed Eutimio. Inoltre, dal momento che Leone Luca era l’igumeno del monastero, in cui vivevano anche Teodoro ed Eutimio, si evince che questi ultimi fossero suoi discepoli.
Leone Luca iniziò il suo ministero pastorale con due pabula, sia per alimentare nei suoi confratelli la carità, sia per esortarli a sfuggire i pettegolezzi. Li riportiamo per amore di completezza: un tempo, essendo un frate rimasto da solo e con un solo pane nel monastero, poiché gli altri erano usciti per lavorare, vide arrivare alcuni cacciatori stanchi e affamati, che gli chiesero del cibo. Mosso da carità verso il prossimo, non esitò a donare loro quell’unico pane, che aveva e qualche mela. Rimasto a digiuno, per tutto il giorno faticò nei lavori domestici fino a sera, quando, stanco e affamato, aperto l’uscio della sua cella, vi trovò tre pani caldi e bianchi, mandatigli da Dio in premio della sua generosità verso i cacciatori. L’altro episodio, narrato da Leone Luca, risale al tempo dell’igumeno Cristoforo, quando un confratello aveva offeso un umile. Per espiare la colpa del suo pettegolezzo si sottopose ad una rigida penitenza: soffrì per venti giorni e venti notti nudo il freddo sui monti di Mormanno. Ma un giorno, per sfuggire ad alcuni cacciatori proprio a causa della sua nudità, si immerse, per pudore, nell’acqua gelida fino al collo. A questo punto l’agiografo, e non Leone Luca, conclude l’esposizione dei due esempi, riportati dal maestro ai discepoli, con la seguente chiosa: Illa duo exempla beati Lucae esse suspicantur quae suo quidem tempore humilitatis causa de aliis protulit.
Quale che sia la natura dei due episodi -veri o inventati-, rimane sicuro il loro intento pedagogico: Leone Luca è il maestro e i confratelli sono discepoli (ivi compresi Teodoro ed Eutimio, designati suoi successori e precisamente :il secondo quale aiuto del primo).
Il procedimento di ‘racconto mascherato’, legato all’insegnamento orale impartito dal santo ai monaci, non vuol dire, a nostro avviso, che Leone Luca fosse colto. Gli episodi del ‘racconto mascherato’ non ci sembrano un buon motivo per rivalutare l’ipotesi dell’istruzione di Leone Luca in quanto entrambi tali episodi si basano sulla tradizione orale e sul ricordo. Proprio per questo crediamo che o Leone Luca li avrebbe vissuti in prima persona, o li avrebbe visti e in questo caso sarebbe egli stesso testimone oculare, o li avrebbe egli stesso appresi dall’igumeno Cristoforo, al tempo del quale proprio uno dei due episodi, come si diceva, risale. Proprio la tradizione orale, cui Leone Luca fa affidamento per esporre i due episodi a scopo didascalico ai suoi confratelli discepoli, non può provare, secondo la nostra opinione, che il santo fosse istruito. Crediamo, invece, che, pur essendo presente, all’inizio della Vita, il riferimento all’educazione impartita dai genitori al figlio, tale istruzione vada interpretata come invito ad una condotta morigerata e come segno di umiltà nei costumi. Ricordiamo, inoltre, che anche Pertusi menziona Leone Luca tra quei monaci «assolutamente illetterati» assieme a Filareto il Giovane, perché non avrebbero ricevuto in gioventù alcuna istruzione religiosa e non si sarebbero applicati allo studio della Sacra Scrittura, del Salterio e dell’innologia sotto la guida di un maestro spirituale. Pertusi pone l’accento sull’ incapacità di leggere e scrivere di quei monaci che considera «assolutamente illetterati». L’unica istruzione che ci sembra di riscontrare nel testo della Vita è quella morale, impartita, cioè, dai genitori al proprio figlio, che educarono alla semplicità. Non sappiamo –a meno che altri studi non daranno nuovi risultati- se Leone Luca sapesse leggere e scrivere tanto da accostarsi alla lettura e quindi allo studio delle Sacre Scritture, del Salterio e dell’innologia guidato, in quest’applicazione, da un maestro. Nè sappiamo come avvenne l’educazione religiosa impartitagli da Cristoforo. Possiamo ipotizzare –ma solo ipotizzare, in considerazione della mancanza di qualsiasi riferimento al libro manoscritto nella Vita e al suo uso-, che gli insegnamenti fossero impartiti oralmente e che lo stesso Leone Luca si facesse istruttore di insegnamenti (mediante pabula) da lui stesso impartiti oralmente.
2.RICOSTRUZIONE CRONOLOGICA
La Vita di Leone Luca non reca un’esplicita datazione del santo, però, sono presenti alcuni elementi interni, che, uniti alle precisazioni dei due editori, lasciano la possibilità di ricostruire la seguente cronologia, partendo da alcuni riferimenti di base:
il dies natalis (posto dal Gaetani nel 915) e il consensus codicum editorumque nel fissare il dies natalis al suo centesimo anno d’età. Se ne desume, pertanto, che la nascita del santo sarebbe avvenuta nell’815.
Da ciò ne consegue che:
– la tonsura e investitura monastica sui monti Mula da parte dell’igumeno Cristoforo, all’età di venti anni, sarebbe avvenuta nell’835, come già avevano notato Martire e Pandolfi;
– i 6 anni di permanenza nel monastero sui monti Mula, lasciano desumere che all’età di 26 anni, quindi tra l’841/42, se ne sarebbe allontanato per edificare altri due monasteri assieme all’igumeno Cristoforo.
– i 7 anni dell’edificazione del monastero in territorio di Mercurio lasciano desumere che esso sarebbe stato ultimato tra l’848/49, quando Leone Luca avrebbe avuto 33 anni.
– i 10 anni di permanenza di Leone Luca assieme all’igumeno Cristoforo nel monastero in territorio di Vena, cioè fino alla morte di padre Cristoforo, lasciano desumere che essa sarebbe avvenuta intorno all’858/59, quando Leone Luca avrebbe avuto 43 anni;
– la durata dell’incarico di igumeno dell’abbazia di Vena fino alla sua morte, avvenuta alla veneranda età di 100 anni, lascia desumere che sarebbe stato igumeno del monastero di Vena per 57 anni, appunto dalla morte di padre Cristoforo alla sua, che il Gaetani fissa al 915.
Se crediamo che Leone Luca sia morto nel 915 (come vuole il Gaetani), a cento anni (come vuole la tradizione manoscritta, accettata dagli editori), è comprensibile che la data di nascita sia l’815. A queste coordinate aggiungiamo i seguenti particolari, presenti nella narrazione: se consideriamo che a 20 anni avrebbe ricevuto l’investitura monastica sui monti Mula e se mettiamo in rapporto l’appellativo datogli dal Gaetani al momento del suo esodo dalla Sicilia (adolescens) e dai Bollandisti al momento del suo arrivo in Calabria (beatissimus puer) possiamo attribuirgli un’età di 17/18 anni al momento del suo esodo dalla Sicilia e fissarlo quindi all’832/33, accordandoci in questo con il Ménager. Cosa spingeva Leone Luca ad allontanarsi dalla Sicilia? Quale la situazione storica nella Sicilia del periodo? Nel sec. IX sopraggiungeva l’invasione araba con la caduta di Mazara nell’827, cui seguiva la caduta di Palermo e nel decennio seguente veniva conquistata tutta la valle di Mazara, dove gli Arabi fondarono le loro colonie. Nell’841-59 fu conquistata la Valle di Noto e infine, nell’843-902 la Valle di Demone. Dopo Taormina (902), con la caduta di Rametta (965), ultimo baluardo bizantino, ormai tutta la Sicilia era in mano agli Arabi. Nella Vita di Leone Luca quindi gli Arabi sono la minaccia incombente. Crediamo pertanto che sia usato anacronisticameente e/o allegoricamente il termine Vandali nella Vita in ricordo, forse, delle scorrerie vandaliche dei secoli precedenti con le quali quelle degli Arabi sono probabilmente paragonate per ferocia e crudeltà: i Vandali, sotto Genserico, invasero l’isola nell’autunno del 461, nella primavera del 462 e nuovamente nel 463. Una nuova scorreria vandalica in Sicilia fu respinta nel 465 da Marcellino, che, però, fu assassinato nel 468, anno in cui essi si insediarono definitivamente nell’isola. Il trattato di Genserico e Odoacre, che non pare essere anteriore al 24 agosto del 476 (rivolta di Odoacre) né posteriore al 24 gennaio del 477 (morte di Genserico), legalizza, infatti, l’autorità di Genserico su tutta la Sicilia. Il dominio vandalico nell’isola durò fino agli ultimi anni del 533 o i primi del 534, quando la Sicilia fu occupata dai Goti.
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[1] Su Leone Luca di Corleone si rimanda a: CARUSO S., Due casi di “racconto mascherato” nel bìos di S. Leone Luca di Corleone, in Quaderni di Cultura e di Tradizione classica, XII, 1994 [ma 1999], pp. 111-121. STELLADORO M., Il codice di Mazara della Vita di san Leone Luca di Corleone, in Codices Manuscripti 27-28, 1999, pp. 47-54. Ead., La tradizione manoscritta delle Vite di Leone Luca di Corleone, in BBGG, N.S. XLIII, pp. 61-82; Ead. (a cura di), La vita di s. Leone Luca di Corleone. Introduzione, testo latino, traduzione commentario e indici a cura di M. Stelladoro, Grottaferrata 1995; Ead., Note agiografiche sulla Vita di Leone Luca di Corleone (sec. IX-X) BHL 4842, in BB. GG. 1, SER. III, 2004, pp. 251-271.




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 San Leone Luca ( Leoluca ) di Corleone, abate ( + 918 ) patrono di
Corleone e Vibo Valentia

Nell'anno 815, nasceva a Corleone Leone. I genitori, Leone e
Teoctista, certamente di origini greco-bizantine, al Battesimo
imposero al bambino il nome del padre, Leone, come era tradizione.
Il piccolo Leone, cresciuto in seno ad una famiglia agiata,
possedimenti nel nostro territorio, ebbe modo di frequentare scuola e
l'ambiente del colto clero di rito greco, da cui ricevette, come in
famiglia, una buona formazione religiosa e civile. Rimasto orfano
d'ambo i genitori ancora giovanetto, Leone dovette applicarsi alla
gestione del suo patrimonio e alla sorveglianza dei suoi armenti. Ma,
nella solitudine dei campi e nella contemplazione della natura,
meditando nel silenzio gli insegnamenti del Vangelo, sentì prepotente
nel suo cuore l'invito del Signore: "... vendi tutto quello che hai,
distribuiscilo ai poveri e seguimi". Il giovane Leone, ormai
ventenne, non oppose alcuna resistenza a quella chiamata. Venduto
ogni suo avere e distribuito il ricavato ai poveri ed ai bisognosi,
rimasto povero lui stesso, lasciò la sua Corleone, per ritirarsi nel
Monastero basiliano di san Filippo d'Agira, in territorio di Enna. Ad
Agira, allora, esisteva uno dei più antichi e rinomati cenobi
basiliani.
I monaci , provenienti da tutta la Sicilia e dall'Oriente, oltre a
condurre una vita di penitenza e di contemplazione, si dedicavano
allo studio, alla ricerca e all'assistenza spirituale e materiale
delle popolazioni vicine, per cui il monastero era diventato un
centro di studi ed un faro di civiltà per il mondo greco-bizantino di
Sicilia. Leone non rimase molto tempo nel monastero di Agira, ma, per
consiglio del suo Superiore, passò in Calabria, avendo espresso
l'intenzione di condurre vita eremitica. Ma il Signore aveva
tracciato altre vie per il giovane Leone. Dovendo sciogliere un voto,
fatto alla partenza da Corleone, si recò pellegrino a Roma, per
visitare la tomba dei santi apostoli Pietro e Paolo e dei Martiri
cristiani.
Ritornato in Calabria, per consiglio ispirato di una santa donna
eremita, chiese di essere accolto nel monastero di santa Maria di
Vena presso Vibona, poi Monteleone Calabro.
In questa comunità, con somma pietà ed umiltà, si dedicò alla
preghiera, alla penitenza e al lavoro manuale, raggiungendo le vette
della contemplazione e della unione con Dio.
Era ancora novizio, quando il Signore volle manifestare i suoi segni
per mezzo del giovane Leone.
Dovendo rifornirsi di legna il convento, Leone si era recato in
compagnia di alcuni frati nel bosco vicino. Mentre ognuno preparava
la sua fascina, il giovane novizio, pieno di entusiasmo e spirito di
carità, fidando nella sua prestanza e robustezza, affastellò tanta
legna che, al momento di caricarsela sulle spalle, risultò superiore
alle sue forze. Subito divise la legna in due parti, pensando di
portarne prima un fascio al convento e poi ritornare a prendere
l'altro. Ma, partito dal bosco con il suo carico, i compagni
meravigliati videro che l'altro fascio si muoveva da solo sospeso al
suo fianco.
Non molto tempo dopo, mentre tagliava erba nell'orto, una vipera
velenosa lo morse ad una mano. Subito i frati cercarono di dargli
soccorso, ritenendolo in imminente pericolo di morte. Ma, il giovane
Leone, ritiratosi in preghiera in un angolo dell'orto, ritornò, poco
dopo, in comunità sano e salvo. Anche quella volta, i confratelli ne
rimasero ammirati e, da quel giorno, lo considerarono un vero amico
di Dio.
Trascorso il tempo del noviziato, nel vestire l'umile saio di san
Basilio, cinti i fianchi con una nodosa corda, Leone assunse il nome
di Luca.
Per circa dieci anni, visse nell'umiltà e nell'ubbidienza al seguito
del suo vecchio abate Cristoforo, che lo volle compagno nel suo
apostolato. Così venne a contatto con molti ambienti della desolata
terra di Calabria. In questo pellegrinare ebbe modo di mettere a
frutto la sua intelligenza, la sua capacità organizzativa e la sua
grande carità verso i poveri, i bisognosi, gli ammalati, gli
afflitti. Anche gli animali, indispensabile sostegno materiale per le
famiglie contadine, nella malattia e negli incidenti di lavoro furono
curati e guariti.
Intanto altri cenobi sorgevano in diverse parti della Calabria, ove
accorrevano molti giovani alla ricerca della santità e della
perfezione.
L'abate Cristoforo, giunto alle soglie della vita, convocati attorno
a sé tutti i monaci del convento, conferito a frate Luca il titolo di
Abate, gli affidò la guida della comunità.
Sotto la guida del nuovo e giovane abate, la comunità si accrebbe
ancor di più, raggiungendo i frati anche il numero di cento, i quali
con la loro carità ed operosità arrecavano grande sostegno morale e
materiale alle popolazioni locali e a quanti altri fuggivano dalla
Sicilia o da altre terre.
La fama della santità di vita dell'abate Luca e della sua grande
carità si diffuse in tutta la Calabria e a lui accorrevano quanti
erano nel bisogno dello spirito e del corpo, ottenendo, per mezzo
della sua preghiera, dal Signore e dalla Vergine Santissima, grazie e
guarigioni.
Aveva toccato già gli ottanta anni di vita monastica ed i cento di
età, quando prevedendo "con lume profetico" il giorno della sua
morte, fece chiamare attorno a sé tutti i monaci. Fatto accostare al
suo giaciglio il monaco Teodoro, alla presenza del sacerdote Eutimio,
lo nominò suo successore.
Dopo avere passato la notte in preghiera e nel digiuno, il mattino
seguente, come se nessun acciacco lo affliggesse, appoggiandosi al
suo nodoso bastone, si portò nella Chiesa del convento. Qui
circondato da tutti i monaci, assistette alla santa messa, ricevendo
la SS. Eucaristica come viatico. Verso mezzogiorno, fra le lacrime e
le preghiere dei confratelli, la sua anima, carica di meriti dinanzi
a Dio ed agli uomini, venne accolta nella casa del Padre.
Era il primo di marzo dell'anno 915.
Appena spirato, un inteso profumo di viole si diffuse per ogni angolo
del convento ed il suo volto divenne splendido e radioso; lo stesso
profumo si sentì per molto tempo ancora attorno alla sua tomba.
Intanto, un giovane frate, da parecchio tempo afflitto da febbre
perniciosa, pur barcollando, si accostò al corpo esanime del vecchio
abate e, nel baciarne il santo volto, fu istantaneamente guarito:
iniziò così la lunga serie di fatti straordinari, avvenuti dopo la
morte, per sua intercessione.
Il suo corpo, dopo il sincero compianto dei suoi figli spirituali e
di tutto il popolo accorso per venerare le sante spoglie, venne
sepolto accanto alla chiesa di santa Maria Maggiore o ad Nives
di Monteleone, nel luogo dove ancora esisteva la cella del Monastero,
in cui ottanta anni prima era stato accolto. Per molto tempo ancora
quella tomba divenne meta di devoti e pellegrini.
Su quel luogo, oggi, sorge il Duomo di Vibo Valentia, dedicato alla
Vergine Santissima e a san Leoluca. L'abate Luca, in vita era
considerato un uomo dalle eccezionali virtù, subito dopo la morte, a
gran voce, venne proclamato Santo, prima da tutto il popolo calabro e
poi dalla Chiesa Universale.
Per più di due secoli ancora, venne invocato con il nome di Luca ma,
alla fine del XII secolo, le Chiese di Calabria e di Sicilia, al fine
di non confondere il nostro Santo con altri santi ed abati "basiliani"
dello stesso nome, vollero unire il nome di religione Luca con quello
di battesimo Leone e così venne chiamato san Leoluca. A Corleone, la
fede in San Leoluca per secoli ha unito l'intera comunità, senza
distinzione tra credenti e non credenti.
Nell'anno 2006 a San Gregorio d'Ippona ( VV ) è stata ritrovata la
tomba con le Reliquie del Santo Abate.


Riflessione di Gabriele Rosario Cassata

da questa narrazione si evince una caratteristica del monachesimo italo-greco.
  • la non necessità della stabilitas loci, tipica del monachesimo benedettino. Il monaco dopo un tirocinio in monastero, va errando per trovare il proprio "deserto" per parlare con Dio, per trovare l'esichia. In monastero stanno monaci forti e ben saldi nella fede, maestri provati. Nel deserto, il monaco si fortifica e diventa a sua volta " Patir" - padre e maestro. Il monachesimo siculo-calabro-greco, non conosce la distinzione di micro o megalo schima,  ovvero picco o grande abito, che sta a distinguere i diversi gradi di perfezione monastica. Come afferma  il Grande Studita, uno solo è l'abito angelico. E sul fatto che i monachesimo siculo-calabro fosse di stampo prevalentemente studita lo dimostra anche il fatto che l'unica copia dell'Ipotiposis ( istruzioni monastiche)  di San Teodoro Studita è stata trovata in Sicilia.
  • Nomina diretta dell'egumeno, da parte dell'egumeno morente, tipico delle comunità monastiche siriaco-palestinesi (alcune  giunte in sicilia e calabria durante l'invasione persiana e le persecuzioni iconoclaste) e non come succederà in seguito con l'invasione dei normanni. I quali costituirono federazioni monastiche su stampo benedettino ( vedi archimandritato di Messina, Carbone, Casole ecc) in cui la sinassi monastica di un monasttero dipendente eleggeva il prorpio igumeno il quale doveva ricevere l'approvazione e benedizione  dell'Archimandrita,per potersi insediare validamente il quale poteva nominare a sua volta,  un abate per il monastero a lui sottoposto tra i monaci del proprio monastero.
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