lunedì 8 aprile 2019

8 Aprile Santo Filareto l'ortolano



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Nacque in Sicilia, probabilmente nei Nèbrodi, attorno al 1022. Dopo la guerra di liberazione dai Saraceni, condotta dal màghistros Giorgio Maniaci nel 1040, Filarete si trasferì - con tutta la sua famiglia - a Sinopoli, nella piana di Gioia Tauro. Ardente d’amore per la vita ascetica, a venticinque anni d’età si fece monaco nel Monastero di Sant’Elia il Nuovo, e fu assegnato al pascolo dei buoi e dei cavalli. Attorno al 1062, a causa dell’invasione dei barbari, Filarete fu costretto ad abbandonare la quiete e la solitudine dei boschi, per rifugiarsi nel monastero, dove si occupò dell’orto. Illuminato dalle increate Energie, fu riconosciuto come maestro di vita spirituale, non mancando di combattere - con ispirati discorsi - le eresie. Si addormentò in pace attorno al 1078, e sulla sua tomba fiorirono subito innumerevoli prodigi.


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SAN FILARETE L’“ORTOLANO”
Conosciamo la Vita di san Filarete grazie a un solo manoscritto, del 1308 (Mess. Gr 29, ff. 3\14); ed è già un miracolo: di quasi tutti i santi ortodossi dell’Italia Meridionale – specie di quelli vissuti dopo l’invasione normanna – sono “sparite”, non tanto misteriosamente, Vite originarie, ufficiature, icone, reliquie, e spesso anche la stessa memoria. La Vita è opera d’un certo Nilo, monaco nello stesso Monastero in cui Filarete praticò la sua ascesi, ma che – nonostante quanto dichiari – non sembra aver conosciuto personalmente il santo[1].
Il prologo – di circostanza e prolisso – merita attenzione solo per un accenno agli antichi sacrileghi Oza, Ozia, Dathan e Aviron: l’agiografo, circondato com’era da franco-cattolici, non manca di ricordare che anche al suo tempo c’erano empi che trattavano indegnamente le cose divine. Bella la pittoresca descrizione della Sicilia:
La sua patria terrestre è stata la famosissima isola di Sicilia; la quale, appunto in quanto sua patria, noi vogliamo lodare, per quanto possibile, non certo perché pensiamo di poter conferirgli, così facendo, qualche motivo di gloria… Questa isola è, per così dire, illustre sotto ogni aspetto. Prima di tutte le altre doti, essa ha un’aria serena, luminosa, splendida e, per la sua mitezza, salutare per gli abitanti. Fresca in estate, calda in inverno, fra le altre cose, l’Isola in modo davvero mirabile offre ai suoi abitanti altri vantaggi, rendendoli partecipi della sua bellezza. Oltre ai suoi splendidi doni, sa variare il loro aspetto, facendo sì che alcuni siano chiari, altri rossicci, dotandoli di un bell’aspetto; inoltre li fornisce di un’intelligenza non piccola rispetto alla natura fisica[2].
… Qui la terra è feconda e ricca di ogni frutto e di messi; la regione è molto fertile… Qui vi sono splendide fonti da cui sgorga l’acqua limpida e soavissima; molte sorgenti termali e molti tipi di fiumi … E poi c’è il fuoco dell’Etna – oh meraviglia! – la cui origine rappresenta ancora oggi per tutti gli uomini di scienza un insolvibile problema, che suscita in vero stupore e terrore; e, anche se alcuni fra questi si sono distinti nel parlare variamente intorno alla questione non hanno fatto altro che ingigantire il problema, accrescendo le difficoltà. E l’acqua della fonte di Aretusa, e il fiume Alfeo che attraversa immensi mari per unirsi, come dicono, con l’amata fonte: prodigio anche questo, e non inferiore al primo. Vi sono, inoltre, legni pregiati: cedri, voglio dire, e cipressi e pini che danno un legno resinoso adatto per le torce, altissimi questi e molto slanciati da terra. E ancora, non comune è qui la natura della pietra, che ha in sé due pregi: riluce al pari del cristallo e procura agli abitanti il vantaggio di un sale gustoso. Molti sono i luoghi sacri con templi divini e venerabili, la cui costruzione desta stupore per bellezza e grandezza; e davvero splendidi sono gli edifici delle città più grandi, la cui erezione è dovuta agli antichi. E che dire degli armenti di cavalli?… E mandrie e greggi, e sciami di api negli alveari, in numero infinito, che ricolmano gli ospiti della dolcezza del miele. E: che dire, poi delle razze di muli, alcuni dei quali sono da soma, altri adatti al tiro di carri? E delle varie specie degli altri animali, alcuni buoni per la nutrizione, altri per altri vantaggi; certuni, poi, sanno guidare gli animi più semplici verso il timore di Dio. E i concerti degli uccelli, alcuni selvatici, altri domestici, che l’isola nutre e che sono pingui, come dicono, e numerosi.
Il mare che circonda l’Isola arricchisce gli abitanti di tutte le cose belle che vengono da esso; e, vedendo l’ampiezza e la grandezza dei porti che sono in questo mare, li diresti costruiti da mano divina; e, oltre agli altri bei vantaggi che derivano dal mare, vi si trovano pinne e la conchiglia della porpora, che è ornamento dei re.
E perché bisogna passare così in rassegna tutti i pregi di questa regione? I suoi abitanti eccelsero in tutti i campi, come anche superiore fu la loro arte del dire; e grande fama ha assegnato all’Isola lo splendore dei discorsi sapientemente composti fin dai tempi antichi, discorsi che superano di molto la gloria degli altri. Le composizioni dei poeti e le opere dei retori, dei filosofi e degli altri scrittori, che sono composte in modo davvero mirabile, hanno acquistato la supremazia su tutti. E perché parlo dei retori e degli scrittori, dei poeti e dei filosofi, e dello splendore delle loro opere?
Niente di tutto ciò, in quanto lontano dal nostro modo di vedere, si adatta alla lode di quel che è bello per noi che pensiamo soprattutto alle cose divine, e che vogliamo avere solo la gloria che da esse deriva.
E ricorderò coloro che in questi luoghi rifulsero nella grazia del Vangelo e della pietà religiosa, mostrandosi davvero come astri divini di tutto il mondo; intendo dire i vescovi e i sacerdoti che hanno concluso la propria vita spargendo il sacro sangue per Cristo e per l’amore che ebbero per Lui, e gli altri martiri e asceti, e quelli che hanno combattuto fino al sangue nella testimonianza della verità, e le schiere di sante donne che qui si sono segnalate nella verginità, nella prudenza e nella modestia di vita; l’innumerevole moltitudine di santi, che l’Occidente ha generato quali astri spirituali, imitando in questo l’Oriente.
In questa terra benedetta, attorno al 1020, da genitori che si distinguevano per l’ortodossia (ricorda l’agiografo), nacque un bambino che fu battezzato Filippo: si può credere in onore del santo ancor oggi tra i più venerati in Sicilia e nel resto della Grande Grecia, il misterioso Filippo il Cacciaspiriti di Agira – EN.
Egli era ormai passato dalla fanciullezza alla giovinezza, le sue guance cominciavano ad avere un po’ di lanugine, aveva diciotto anni quando reggeva il trono di Costantinopoli Michele [IV il Paflagone, 1034\41] …Questi ritenne di dover fare una guerra in Sicilia contro i barbari Africani, dopo aver avuto più volte richieste dal governatore dell’isola e da alcuni isolani. Egli infatti, come per altro si dice, era un uomo buono e moderato, amico dei poveri, misericordioso e pieno di compassione…
Con ordini imperiali fece riunire da ogni parte le schiere dei Romani, e, allestite le Forze Armate di terra e di mare, le mandò in Sicilia a combattere contro lo straniero. Oltre agli altri comandanti e generali, nominò comandante in capo quel [Giorgio] Maniace che era diventato molto famoso nelle battaglie.
Intanto il tiranno [Abd Allah] … s’impadronì di Palermo e di tutta l’Isola. Mosso dalla superbia, uscì dalla città e si accampò in una grandissima pianura, poiché voleva spiare i Romani che marciavano contro di lui; e, nella sua boria, si apprestava a combattere contro le legioni imperiali; anzi il folle credeva che le avrebbe sconfitte.
Ma egli non aveva certo il favore di Dio. Infatti come avrebbe potuto averlo un uomo empio e senza legge? Contava piuttosto sulla sua scelleratezza e sul grande numero dei suoi uomini: poteva vantarsi, infatti, di una massa di circa centomila soldati. Ma la sua arroganza, che gli aveva fatto realizzare ogni cosa secondo il suo desiderio, non era destinata ad esser sicura e senza umiliazioni sino alla fine. Era fatale che piombasse giù dalla sua altezza fino a terra; del resto, come per lo più avviene, Dio combatte l’azione dei superbi.
I Romani facilmente con le loro agili navi attraversarono lo Stretto di Reggio. Il Dio d’Israele li guidava. Or quello, desiderando vivamente che la sua vittoria fosse davvero illustre, e volendo affermare nettamente la sua potenza sui Romani, oltre alla moltitudine delle sue forze, volle poter contare su uno stratagemma che con malizioso inganno escogitò contro il popolo di Dio. Infatti la malvagità convince il cattivo che può fare tutto facilmente, specialmente poi se può contare su una certa potenza.
Egli comandò che si facessero triboli[3] in grande quantità e che si spargessero intorno al luogo in cui egli era appostato, in modo che si formasse una specie di salda fortificazione o trincea, secondo lui insuperabile; così, dunque, avrebbe facilmente avuto ragione della cavalleria romana, che nell’attaccare si sarebbe trovata in serie difficoltà. Non sapeva l’insensato che i cavalli dei Romani avevano sotto le zampe delle lamine piatte saldamente legate.
Che cosa fece il Dio dei prodigi? Colui che separò le acque del mare e condusse in salvo il popolo d’Israele che fuggiva, colui che confonde i sapienti nella loro astuzia? S’attacca battaglia – tralascio gli avvenimenti del mezzo della storia per la loro grande quantità – e i Romani, operazione davvero molto saggia, sono divisi in tre schiere dall’espertissimo condottiero che abbiamo sopra menzionato.
O mio Cristo, i tuoi prodigi! Lo straniero è subito volto in fuga, non riuscendo a resistere nemmeno al primo assalto; soccombe come polvere davanti ai piedi dei Romani, poiché era venuto meno il timore che questi avevano di quelli; giace come pietra, opera di mano e di ferro. Ed il superbo, che prima nella sua immaginazione sognava i trofei della vittoria, viene deriso come uno schiavo. Due furono infatti le forze che combatterono contro di lui: l’esercito romano e il soffio di un vento violento che spirava con impeto contro di lui, mostrando così l’ira di Dio che si era abbattuta su di lui per la sua arroganza. Così dunque fu chiaramente confutata la sua empietà; ed egli, sfuggito a stento alle schiere dei Romani con un piccolo manipolo dei suoi grazie alla velocità delle zampe dei cavalli, imbarcatosi in una piccola navicella, fuggì con grande vergogna e ignominia e fece ritorno in patria, riportando a casa, oltre alla pelle, motivo di lamenti e ciò che era rimasto dalla disfatta subita.
È la grande battaglia di Draghina (oggi: Troina, EN) del 1040, con la quale l’esercito romano inviato da Costantinopoli liberò Sicilia e Grande Grecia da un incubo che durava ormai dall’831, l’anno in cui i Saraceni – feccia della Nazione araba[4] – avevano iniziato a terrorizzare l’Isola e la lunga terra dei Romani, com’essi chiamavano la Penisola. Tra 831\841 Saraceni (e Berberi) erano dilagati in tutta la Regione di Mazara: all’incirca, l’angolo della Trinacride che va da Mazara sino a Licata (AG) e Palermo. Negli anni 843\902 presero il controllo di gran parte della Regione del Noto (la Sicilia orientale); solo nel 962 iniziarono a penetrare nella Regione di Demenna (la Sicilia occidentale). È in questa zona, dominata dalla catena montuosa dei Nèbrodi, che va posta la patria di Filippo \ Filarete e d’altri santi quali Vitale (detto di Castronuovo) e Luca (detto Leoluca di Corleone); d’una loro nascita a Palermo o nel Palermitano vaneggiarono, per primi, solo Gesuiti palermitani del 16°\17° secolo[5]. È la zona, quella di Demenna (oggi: Valdèmone), che più a lungo ebbe a resistere ai Saraceni, ma è anche la zona in cui i Romani – i cristiani ortodossi – dell’Italia Meridionale più a lungo contrastarono, alleandosi proprio ai Saraceni, la penetrazione dei Franchi.
Dalla Regione di Demenna la famiglia di Filippo – tutti agricoltori – si spostò allora nella Regione delle Saline, il versante tirrenico della provincia di Reggio Calabria, venendo a stabilirsi a Sinopoli, un piccolo centro agricolo della fertile Piana di Gioia Tauro.
La Regione di Demenna, in cui Filippo era cresciuto, era ricca di centri monastici (primeggiava tra tutti il Monastero di San Filippo il Cacciaspiriti, in Agira – EN), molti dei quali pienamente attivi anche negli anni difficili delle scorrerie saracene, specialmente nella zona di Fragalà – Brolo (ME). A confronto, tuttavia, la Regione delle Saline era una sconfinata Tebaide: nonostante le barbare e secolari distruzioni – anche documentarie – operate dai franco-cattolici, si hanno prove certe dell’esistenza di almeno cento monasteri in un raggio di pochi chilometri. Il più famoso tra tutti era il Monastero Imperiale fondato nell’884 circa da sant’Elia di Enna (o il Nuovo)[6]: a questo s’indirizzò Filippo.
“Filippo, che cosa aspettiamo? Perché indugiamo? Perché, poi, stiamo qui a dormire? Riconosci il comando di Dio; torna in te, svegliati, andiamo via di qui. Cristo ci attende, ogni giorno aspetta con ansia la nostra salvezza. Infatti il mondo non è per noi, né tutto quello che esso contiene: non è per noi l’affetto dei genitori, né la benevolenza degli amici, né il piacere della carne; non sono per noi le delizie della giovinezza, né il fiore dell’età. Tutte queste cose passano e periscono; rimane solo la virtù che ama. O virtù, che sai glorificare chi ti possiede, rendendolo davvero divino e meraviglioso agli occhi di tutti, te io amo, te desidero, te sola e la tua grazia bramo grandemente. O beati monaci di Dio, che avete fuggito il mondo e tutte le sue sozzure per vivere con Dio secondo lo spirito e per diventare eredi del suo regno, quando sarò con voi, tra voi, a trascinare con voi, in mezzo a voi, il soave giogo di Cristo? Chi mi darà le ali come di colomba? per dirla con David, e volerò e troverò la quiete? Io che desidero con tutto il cuore ciò che voi desiderate, in mezzo a voi finalmente potrò riposare. O Padre, o Logos, o Spirito, o Divinità regale, guarda il desiderio che mi spinge a te, guarda il mio lamento, liberami presto dal mondo e dalle sue lusinghe; uniscimi al tuo amore e alla beatitudine delle menti divine che sono accanto a te. Fa’ che io possa vedere l’oggetto del mio desiderio, che io possa godere dei tuoi doni, che io colga la speranza, che possa provare il diletto della grazia, che possa essere partecipe della comunione dei santi che dall’inizio del mondo ti furono graditi”. Dicendo queste cose, lasciava scorrere dagli occhi fiumi di lacrime: era ispirato, infatti, dalla grazia divina che viene dall’alto e la sua mente era illuminata da una luce spirituale; la sua anima era infiammata, i suoi precordi erano accesi come fuoco; e teneva questi grandi sentimenti nascosti nel cuore. Infatti, non poteva svelare ai genitori i suoi propositi perché temeva che questi volessero impedirgli di ritirarsi dal mondo. Si dedicò a frequenti digiuni e a veglie… s’immaginava gli eremi, guardava alle caverne, aveva davanti agli occhi le cime dei monti, pensava alle spelonche[7], voleva raggiungere i rifugi dei monaci, desiderava praticare l’esicasmo, pensava al ritiro dal mondo, ardeva dal desiderio della vita solitaria.
Aveva 25 anni, il contadino siciliano, quando l’igumeno del Monastero Imperiale di Sant’Elia il Nuovo, “il famoso Oreste”, mutandogli nome, lo chiamò Filarete[8] e lo rivestì del santo e angelico abito[9]:
prima la corazza: pensiamo che possa essere la tonaca. Poi lo scudo: quello che mettiamo sulle spalle e che siamo abituati a chiamare pallìo. L’elmo può essere ciò che mettiamo sulla testa e che, per antica consuetudine che risale ai Padri, chiamiamo cucullìo. L’asta: la stessa immagine della santa croce, che noi fedeli portiamo sempre sulla fronte[10], e per la quale l’avversario è ferito come da una lancia. Si consideri anche la cintura e l’analavo: l’una comprime le nostre passioni, perché non assecondino follemente le spinte del corpo, ed è verosimilmente segno per i soldati; l’altro, quasi c’inchioda e crocifigge col Cristo, rendendoci proprio perfetti soldati di Cristo, che vogliono lottare non contro il sangue e la carne, ma che sono pronti a combattere i principi e le autorità delle tenebre che dominano questo secolo.
Filarete fu dapprima impegnato nell’allevamento dei buoi e dei cavalli del monastero, ma ben presto fu costretto ad abbandonare la solitudine dell’Aspromonte: i Normanni avevano invaso la Calabria, ponendo il loro Quartiere Generale proprio nella Regione delle Saline.
I patti firmati a Melfi il 23 agosto 1059 da Roberto il Guiscardo e papa Nicola II erano chiari. Il Papato avrebbe riconosciuto l’invasione dei Normanni, dando loro una patente di legalità, ma essi avrebbero dovuto strappare al Patriarcato Ecumenico, a Costantinopoli, la popolazione – ortodossa – dell’Italia Meridionale e sottometterla alla Chiesa (franco) cattolica. Oltre a massacri di massa e deportazioni da una parte all’altra del neonato Regno normanno, gli invasori applicarono – a guerra ancora in corso – un piano ben congegnato. Tutti i monasteri, ortodossi, dell’Italia Meridionale – tutti, nessuno escluso – furono assegnati in dono o a vescovi latini insediati dai Normanni oppure a conventi realizzati facendo affluire, in tutta fretta, religiosi Benedettini dal Nord Europa. Nel 1062, vivente san Filarete, il Monastero di Sant’Elia il Nuovo venne assegnato in proprietà a un’abbazia benedettina di fresco aperta a Sant’Eufemia (Lamezia –VV) e poi, nel 1133, ceduto al vescovo cattolico di Messina[11]. Nel giro di pochi anni, migliaia di monaci ortodossi diventarono – direttamente o indirettamente – coloni, servi, delle nuove istituzioni latine (vale a dire: cattoliche) create in Italia Meridionale dagli invasori.
Filarete lasciò la pace dei boschi e ritornò al Monastero, dedicandosi alle cure dell’orto e vivendo in una capanna.
Quest’uomo meraviglioso … parlava poco, e le poche parole che diceva erano frutto di una ponderata riflessione. E diceva che il monaco non doveva mai insuperbirsi, se guardava a se stesso e ai suoi indumenti: diceva che, infatti, il pallio è segno dell’afflizione, l’analavo della croce, e il cucullio della sepoltura; che il taglio dei capelli e la tonsura alludono intelligentemente al disprezzo e all’abbandono di tutto ciò che v’è nel mondo. Degli esicasti diceva che non dovevano affannarsi per le cose del mondo, affinché – diceva – con il daffare non perdessero il loro stesso appellativo[12]
Il Grande riteneva opportuno ammonire con le sue soavi esortazioni e con i suoi divini insegnamenti anche coloro che vivevano nel mondo: li esortava ad essere prudenti, a non essere invidiosi e a praticare la madre di tutte le virtù, l’elemosina… Ma soprattutto, ammoniva tutti perché venerassero un solo Dio in tre ipostasi, ognuna con caratteristiche proprie; invitava altresì ad attenersi alle definizioni dei Padri divini[13]  e a non fare alcuna innovazione in materia di fede[14].
Giunto all’età di 56 anni – attorno al 1076 – Filarete, dopo una breve malattia, s’addormentò nel Signore. Fu seppellito con ogni onore, ma presto dimenticato: era solo un umile ortolano. Trascorsi circa due anni, a una donna del circondario – cieca per encefalite – apparve...
... il divino e taumaturgo Elia che le dice: “Perché stai qui, inutilmente, a vegliare invano, e correndo grave pericolo? Alzati, e recati subito al sepolcro di san Filarete, dove avrai la guarigione degli occhi che tanto desideri”. Ella rimase sbigottita per la prodigiosa visione; ma non poteva sapere se fosse vero quello che il santo le aveva detto, poiché non le risultava che in quel luogo vi fosse alcun santo di nome Filarete. E siccome la visione non le apparve una sola volta, ma ben tre volte, e il comando che il santo le dava era sempre più perentorio e più chiaro, la donna … chiedeva a quelli che incontrava: “Si venera in questo luogo un santo di nome Filarete, a me sconosciuto, a voi forse notissimo?”. E quelli, colpiti dalla novità del nome, assicuravano di non conoscerlo affatto. E lei, disperata, si trovava in grandissima difficoltà a causa del mistero dell’apparizione, e non sapeva assolutamente che cosa potesse fare in proposito. Sul far dell’alba … la donna si rivolse ai monaci che erano riuniti in chiesa per innalzare, come al solito, gli inni mattutini e, stando in mezzo a loro, piangendo e lamentandosi, interrogava ciascuno di loro circa la sua vicenda e con grande pietà raccontava a tutti la visione che aveva avuto. E anche quelli, colpiti dalla novità del nome dicevano alla donna di non sapere di quale santo potesse trattarsi. Ma uno di loro, quello che aveva visto la luce divina sulla tomba, agitando le mani e il capo, esclamò: “Credete, padri! Il fratello Filarete, il giardiniere, è santo!”… E quella, guidata da quelli che conoscevano il posto, giunse al sepolcro del santo, prese un po’ della polvere che era sulla tomba e se la mise sugli occhi. Come sono grandi e meravigliose le tue opere, o Signore! Subito quel velo letale che li chiudeva come una pelle, fu del tutto strappato e lasciò le pupille della donna perfettamente sane, senza la più piccola traccia della malattia, e splendenti come prima del morbo.
Il clamore del fatto fu tale che accorsero altri malati, e si moltiplicarono i miracoli: nel volgere di pochi anni, il Monastero Imperiale delle Saline fu conosciuto come dei santi Elia e Filarete. L’umile e sconosciuto contadino era stato associato, nella devozione del popolo credente, al grande asceta ch’era stato intimo di patriarchi, ammiragli, vescovi, e dell’imperatore Leone VI.

 

[1] La Vita manoscritta è stata edita da U. MartinoVita di san Filarete di Seminara, Reggio Calabria 1993, qui ampiamente citato.
[2] La bioarcheologia trova negli abitanti dell’Isola in epoca preistorica la singolare anomalia genetica per cui alcuni hanno colorito scuro ma occhi chiari (come Filarete) e viceversa. Un diffuso luogo comune vuole invece che si tratti del risultato dell’incrocio tra la pura razza dei Franchi (notoriamente alti, belli e biondi) e le donne – “greche” – dell’Italia Meridionale (notoriamente basse, brutte e nere).
[3] Il tribolo (murex ferreus) è un ferro a quattro punte che, comunque gettato, si arresta saldamente su tre piedi con una punta rivolta sempre in alto. P. Florenski, in La colonna e il fondamento della verità, lo pone a contrassegno della VI lettera, come “simbolo naturale del dogma antinomico”.
[4] D’una “Civiltà” araba in Sicilia si può parlare solo ricorrendo ad ottocenteschi (e massonici) luoghi comuni, tanto radicati quanto privi di fondamento.
[5] Vi unirono anche san Giovanni il Theristì. Vitale, invece, nacque in un kastro Neo (forse il “kastro” di Enna) e Luca in una chora Leonìon (forse Caprileone di Messina?).
[6] G. Rossi TaibbiVita di sant’Elia il Nuovo, Palermo 1962.
[7] A Melicuccà, nelle immediate vicinanze di Sinopoli, dove s’era stabilita la famiglia di Filippo \ Filarete, sorgeva il grande Monastero delle Grotte (quasi una città rupestre), fondato all’inizio del 10° secolo da sant’Elia lo Speleota, nativo di Reggio Calabria.
[8] Vogliamo credere in onore del san Filarete ricordato al 6 aprile, martire a Palermo nell’831. Si noti l’uso di conservare l’iniziale del nome “civile”.
[9] I monaci ortodossi dell’Italia Meridionale non conoscevano la distinzione – invero, non antica – tra microschimi e megaloschimi, monaci dal “piccolo” o dal “grande” abito. Nella Vita di Filarete c’è, tuttavia, un cenno a un periodo di prova o noviziato.
[10] L’Agiografo fa riferimento al segno di croce dipinto o ricamato sul cappuccio monastico.
[11] Apparentemente, Sant’Elia fu aggregato al Monastero greco del Salvatore di Messina che, però, era “feudo” del vescovo latino della città.
[12] È un gioco di parole, intraducibile, sul significato di isichìa come quiete.
[13] Letteralmente: attenersi ai limiti (orois) dei divini Padri.
[14] È una netta condanna dell’eresia trinitaria professata dai cattolici. Se poi queste non sono parole di san Filarete, ma dall’Agiografo, sono ancora più interessanti, in quanto testimonianza più tarda (13° secolo?) dell’opinione che si aveva in Italia Meridionale sul Filioque.

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Filareto nacque nel 1020 a Palermo, anche se taluni studiosi sostengono che egli sia nato nella zona del Val Demone, territorio ricompreso tra la provincia montuosa di Messina, Caronia e Catania. Le vicende personali e familiari del giovane Filippo si intrecciarono con quelle storiche che contrassegnarono l’Italia meridionale e, specificamente i territori che a partire dall’imperatore Leone III l’Isaurico passarono sotto la giurisdizione dell’impero di Costantinopoli. Infatti, battezzato con il nome di Filippo, in omaggio al grande esorcista di Agira (EN), detto appunto “scacciaspiriti”, egli visse a Palermo, in un ambiente in cui vi era una preponderante presenza musulmana, fino a 18 anni, quando l’imperatore di Costantinopoli Michele IV Paflagone (1034-1041) con una invasione condotta dal grande generale macedone Giorgio Maniace cercò di liberare la Sicilia dal giogo musulmano che si concluse con la vittoria temporanea di Troina del 1040. In tale età, Filippo su ispirazione divina si trasferì insieme alla famiglia a Sinopoli (RC). A 25 anni Filippo si ritirò nella valle delle Saline, che oggi è identificabile con la zona di Seminara (RC) e dintorni. Qui il santo ricevette l’ordinazione monastica ad opera dell’igumeno Oreste del Sacro Imperiale monastero delle Saline, fondato da Sant’Elia il Giovane nell’880, originario di Enna, a cui appunto l’imperatore Leone IV il Sapiente gli conferì il titolo “imperiale”. Tale monastero è il principale insediamento religioso in un’area che secondo taluni studiosi vedeva tra eremi, skiti e piccoli cenobi, circa un centinaio di luoghi vissuti unicamente da monaci e che senza alcun dubbio diedero vita ad un’importante scuola monastica da cui uscirono molti santi italo-greci. L’igumeno diede a Filippo il nome di Filareto che significa “amante della virtù”. Della dura ascesi che praticava Filareto ci è giunto poco da un bios scritto da un monaco Nilo, che, probabilmente è vissuto in un periodo differente dal santo. Quel che ci giunge del santo di Seminara, lo connota come maestro del silenzio e dell’umiltà, in quanto trascorreva gran parte del suo tempo a pascolare gli animali, quando gli fu affidato il compito di pastore, aiutando coloro che si trovavano in montagna a pascolare il loro bestiame, aiutando coloro che si erano persi o si erano infortunati. Al punto da divenire il loro padre spirituale. Successivamente fu un instancabile coltivatore per conto del monastero, quando gli fu assegnato un appezzamento di terra, che lui coltivava avendo sempre addosso una pesante catena, che gli doveva tener viva in mente l’idea della schiavitù del peccato e per l’afflizione del corpo, vestito unicamente di una tunica di paglia. Il suo duro lavoro rendeva molti frutti che il santo donava anche ai poveri che in quel tempo si erano moltiplicati esponenzialmente per via delle guerre che infuriavano in quel periodo. L’ascesi di Filareto si basò inoltre in lunghe veglie ed estenuanti digiuni, spesso si nutriva di erbe bollite, vino, il sale fu una rara prelibatezza e del pane che gli forniva il dispensiere al termine della Divina Liturgia, alla quale il santo si recò, unicamente, a seguito della nomina di ortolano, e quando il medesimo non gli forniva la razione settimanale di pane, Filareto faceva ritorno nella propria capanna senza dir nulla. La sua vita solitaria e silenziosa, infatti la sua partecipazione alle funzioni avveniva silenziosamente in un angolo della chiesa tenendo gli occhi bassi e la testa ancor di più, si nutriva di una fervorosa preghiera che recitava nella sua capanna, spoglia, ma come scrisse l’agiografo estremamente ricca, rigorosamente con la porta aperta, perché i fedeli non dovevano pensare che lui stesse pregando. Tutto ciò lo rese sicuramente poco conosciuto ai suoi fratelli contemporanei e, sicuramente, a quelli successivi alla sua dormizione, in quanto solo grazie ad un miracolo si venne a conoscenza della umile santità di Filareto. Infatti, quando egli si ammalò gravemente, i confratelli lo portarono nel monastero e fattolo distendere sul letto lo lasciarono riposare, credendo che avesse energie sufficienti per poter vivere, per cui lo privarono della necessaria assistenza ed il santo si addormentò nel silenzio e nella solitudine, così come condusse la sua vita. Il giorno seguente i confratelli gli celebrarono il funerale, senza tener conto del profumo che emanava il suo corpo e deposero i suoi vestiti accantonandoli senza dargli un’adeguata conservazione, ma dopo il miracolo, che si narra a breve, i fratelli si ricordarono dei suoi vestiti e fattili a pezzi vennero distribuiti ai fedeli come reliquie. Nella vita è documentato che una donna affetta da cecità, a seguito di una grave emorragia celebrale, si recò sulla tomba ad implorare l’aiuto di Sant’Elia il Giovane, che era estremamente vivo nella devozione dei fedeli a causa dei suoi innumerevoli miracoli, per ricevere un’intercessione miracolosa. In una visione gli apparve il santo che gli disse di rivolgersi alla tomba di San Filareto, che era in grado di guarirla. La donna chiese ai concittadini del santo, ma non ebbe alcuna informazione e, quindi, si recò presso il monastero chiedendo di potersi recare sulla sua tomba, ma i monaci, ovviamente, non conoscevano alcun Filareto e la donna fu licenziata senza potersi recare sulla sua tomba. Ciò la gettò in un profondo dolore, visto che dell’unico monaco che poteva guarirla non si aveva alcuna notizia in quel monastero. Ma un confratello ricevette l’illuminazione divina che il Filareto cercato dalla donna, fosse colui che si era addormentato due anni prima. La donna fu invitata a recarsi a pregare sulla sua tomba e durante la preghiera ella ricevette nuovamente la vista. Tale miracolo consentì di annoverarlo tra i santi asceti italo-greci. Questo fu il primo di innumerevoli miracoli, al punto che fu costruito un oratorio sulla tomba del santo e dove molta gente ricevette le intercessioni miracolose. Nel 1133 il monastero venne costruito sulle rovine dell’originario e dedicato ai Santi Elia e Filareto. Però, si assistette ad un fenomeno curioso, in quanto la devozione di San Filareto si sviluppò enormemente al punto che il monastero venne successivamente conosciuto unicamente con il nome del santo ortolano, facendo così vivere alla sua ombra quello del fondatore ovvero Sant’Elia. Risulta essere un paradosso in quanto l’umile ortolano era estremamente devoto del santo fondatore, al punto da portare sempre con sé il libro della sua vita. Il Sacro monastero fu distrutto dal terribile terremoto del 1693 ed è stato riedificato nei primi anni del secondo millennio. Il culto di San Filareto rinacque a Palermo per opera del Cardinale Giannettino Doria (1608- 1642), che lo inserì nel Calendario Palermitano. L’abate Generale dell’ordine basiliano di Palermo, Pietro Minniti, chiese la restituzione delle reliquie del santo palermitano affinché tornassero nella terra natìa ed il Papa Clemente XI le concesse con la motivazione che in quella città si venerano le sue reliquie. Così come attestato dallo stesso P. Abate Generale, che il 4 ottobre 1701 estrasse il braccio di San Filareto e lo portò con sé a Palermo. La traslazione fu celebrata con solenni suppliche il 14 gennaio del 1703 dalla chiesa di San Basilio sino alla Cattedrale. Ed in tale data fu inscritta la celebrazione nel martiriologio romano. La festa della traslazione fu celebrata sino al 1929, mentre quella del santo fino al 1958, anno in cui la sua festa fu definitivamente cancellata dal calendario liturgico romano. Presso il santuario della Madonna dei poveri di Seminara, di cui l’ultima riedificazione si ebbe nel 1929 a seguito del catastrofico terremoto del 1908, erano conservate sul lato sinistro del presbiterio in una nicchia: braccio-reliquario argenteo quattrocentesco di S. Filarete (prob. opera di L. De Sanguini, del 1451), con mano rifatta da D. Vervare nel 1605. Testa-reliquario argentea di S. Filareto, con iscrizione dedicatoria e datazione (opera di orafo messinese, datata a. 1717). San Filareto ci lascia un’importante insegnamento spirituale ovvero che il fine della lotta spirituale non è quello di acquisire necessariamente delle “soddisfazioni terrene”, bensì quella di anelare unicamente la salvezza eterna e di acquisire tesori spirituali, perché lì dove è il nostro tesoro, là è il nostro cuore.
Per le preghiere di San Filareto, Signore Gesù Cristo, Dio nostro, abbi misericordia di noi e salvaci. Amin!

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